Oggi voglio tornare sul tema dei rifiuti solidi urbani. Sono stato qualche mese lontano da Roma e mi è sembrato che, altrove, il problema sia un po’ meno un problema.

Ma il ritorno nella Capitale ripropone il tema in tutta la sua attualità.

Le città – in un modo o nell’altro – si organizzano, ma il tema è sempre quello: a noi cittadini vengono imposti paletti ed incombenze, ma il costo della tassa su rifiuti continua a salire.

Ci sono città che hanno ancora il sistema di raccolta a cassonetti, altre sono passate al “porta a porta” seppur non sempre con le medesime modalità.

Ogni metodo di raccolta ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Ne scriverò poi.

Ma vediamo, nella pratica come si svolge la vita di un cittadino rispettoso delle norme e che “tiene a cuore” l’ecologia e la vita del pianeta.

Io vivo a Roma. E, questo, si sa, per lo smaltimento dei rifiuti è un grosso dramma.

Io sono single e come tutti i single spesso non mangio a casa. E questo, forse non si sa, per lo smaltimento rifiuti è un piccolo dramma.

Per i non romani ricapitolo la situazione nella Capitale. Tranne che in poche parti del centro storico, non c’è la raccolta differenziata porta a porta, ma i cassonetti per le strade.

Quello marrone per l’organico, con l’obbligo dei sacchetti superbiodegradabili; quello bianco per la carta; quello blu per la plastica (non tutta) e il metallo; quello grigio per i rifiuti non riciclabili; la campana verde per il vetro (ricordatevi di non mettere anche il sacchetto nella campana).

Sorvolo sullo scempio e sui cumuli di immondizia attorno ai cassonetti non svuotati per intrattenervi sul dramma del single (ossia una persona sola) che deve dividere i suoi (pochi) rifiuti ogni giorno in cinque sacchetti diversi. Eh, sì, ogni giorno: ho una casa molto piccola e non posso tenermi i sacchetti aperti, pena l’intervento dei Vigili del fuoco per la puzza che, dopo il primo giorno, promanerebbe, spargendosi per il quartiere.

Cominciamo dal facile.

Decido di prepararmi per cena una pasta con il sugo e un hamburger vegetale. A pranzo ero fuori, ho risolto con un tramezzino per i cui rifiuti se la vedrà il bar.

Allora, prendo il pentolino per il sugo, ci metto un po’ d’olio e uno spicchio d’aglio. Le parti scartate dell’aglio mi fanno aprire un sacchetto per l’organico biodegradabile.  Mi accorgo di aver messo, forse, un po’ troppo olio e non so dove buttarlo. Nel lavello? Nel gabinetto? Pare sia vietato; bisognerebbe “conferirlo al consorzio obbligatorio olio esausto”. La legge vieta di smaltirlo nelle fogne. Ma a Roma non è previsto alcun servizio. Sono costretto a trasgredire.

Apro un barattolo di pomodori pelati. Beh, il contenitore è metallo, facile, apro un sacchetto per i rifiuti metallici, sciacquo il contenitore (acqua sprecata) e ce lo metto dentro. Vorrei condire il sugo con un po’ di capperi e di alici, così finisco quei due barattolini in vetro che ho nel frigo. Sì, li svuoto, e cerco di smaltirli. In quello che conteneva le alici c’è rimasto un dito d’olio. Non è fritto. Posso buttarlo nelle fogne? Chissà. Tutti e due son di vetro ma hanno l’etichetta di carta che dovrei staccare. Passo i due barattolini sotto l’acqua (che spreco!), ma l’etichetta sembra attaccata con una super colla. Ci rinuncio e li metto in un altro sacchetto per i rifiuti in vetro.

La pasta. L’acqua bolle e svuoto il pacco nella pentola. Mi rimane in mano una confezione vuota in plastica. Altro sacchetto, per la plastica. Ma sarà plastica riciclabile? Chissà.

Passo all’hamburger vegetale, prodotto biologico chiuso in una bolla di plastica rigida, a sua volta contenuta un involucro di carta. La carta va nella busta di carta che raccoglie altra carta. Poi, la solita domanda, la confezione a bolla di plastica dove va smaltita? Nella plastica riciclabile o nell’indifferenziata? Le scritte sulla confezione si dilungano sulle proprietà nutritive, sulle kilocalorie, ma non dicono dove gettarla.

Finisco di cenare e mi ricordo che l’indomani devo consegnare delle foto e dei documenti che ho sul computer ad un amico. Ho comprato una minuscola pennetta USB per la bisogna. Osservo la confezione: la pennetta sarà tre centimetri per uno. Ma è “affogata” in una bolla di plastica dura, a sua volta incollata su un cartoncino dove, per di più sono stampate, in minuscoli caratteri, le istruzioni d’uso. Quindi aprendo – con le forbici, con le mani non ce la faccio – la confezione perdo le istruzioni. Poco male, so come si usa la pennetta USB. Peccato, però, mi perdo l’indirizzo web del produttore che, leggo sui resti, mi avrebbe fatto scaricare gratuitamente un programmino per le immagini. Ma non divaghiamo. Ho fra le mani un rifiuto misto: resti della bolla di plastica saldamente incollati al cartoncino. Dove li butto? Uso la monetina?

Bel dilemma. Ci bevo sopra l’ultimo sorso di una bottiglia di vino che avevo in casa. Anche qui il problema di togliere l’etichetta di carta prima di smaltirla.

Sono stato solo due ore in casa e ho aperto cinque contenitori: per la plastica, per l’indifferenziata, per la carta, per il vetro, per l’organico e ho sempre il dubbio di aver diviso bene e il rimorso per l’olio fritto nello scarico.

I sacchetti di plastica che ho usato per i rifiuti, secondo me, contengono più plastica del contenuto, forse no perché ho usato una busta di carta per i rifiuti cartacei e una busta di mais per quelli organici, forse sì perché le altre buste son grosse, non ne ho altre. I sacchetti per l’immondizia sono ancora più grandi.  Insomma, spesso mi sembra – fra acqua sprecata e sacchetti per i rifiuti – di inquinare più dei rifiuti che produco. Senza contare che i sacchetti per l’organico, come si dice a Roma sono una sòla. Sono fatti di amido di mais e non reggono a tutti i rifiuti organici: provate a metterci dei limoni spremuti o avanzi di pesce o di salsa di pomodoro: dopo poco tempo si squagliano letteralmente diffondendo i rifiuti nel bidoncino domestico. Se la tua città ha ancora i cassonetti, ti sbrighi e lo butti nel cassonetto dell’organic, ma se vivi in una città che raccoglie l’organico ogni 2/3 giorni non puoi usare i sacchetti di mais, pena l’impestamento di tutta la tua casa.

Ora i sacchetti sono pieni. Bisogna smaltirli. Il come dipende dalla tua città.

Se è attiva la raccolta porta a porta, dovrai portare al portone o mettere nel secchione condominiale il sacchetto corrispondente alla raccolta di quel giorno e tenerti gli altri sacchetti in casa “in attesa che venga quel giorno” in cui saranno raccolti. Devi avere almeno un balconcino dove accumularli, specialmente se sei una famiglia numerosa. Sacchetti ben chiusi, mi raccomando, perché la plastica, la carta con residui di cibo puzza. E puzza tanto.

Se invece ci sono ancora i cassonetti, devi scendere con due tre sacchetti e gettarli nel cassonetto corrispondente.

Ho scritto prima che ambedue i sistemi hanno pregi e difetti.

La raccolta porta a porta ha – come ho già scritto – il grave difetto di non permetterti di svuotare tutti i rifiuti nello stesso giorno e ti impone di possedere uno spazio per lo stoccaggio dei rifiuti in attesa che arrivi il giorno giusto. Non sia mai che, nel giorno dedicato ai rifiuti organici tu debba partire dopo pranzo: il sacchetto dove e quando lo getti? Rimarrà a casa tua fino al prossimo turno. Un po’ come, nel Monopoli, andare in prigione senza passare dal via. I cassonetti sono senz’altro più comodi, a patto che vengano svuotati e vengano svuotati da autocompattatori che rispettino la destinazione specifica dei rifiuti.

Vi racconto “una cosa di Roma”. Fino a qualche anno fa, gli autocompattatori erano autocarri con un equipaggio di tre persone: uno alla guida e due che posizionavano i cassonetti, provvedendo anche al “carico” dei sacchetti eventualmente caduti dai cassonetti.

Oggi no. L’autocompattatore conta il solo autista che, con l’ausilio di una telecamera, si posiziona a fianco del cassonetto prescelto e, tramite bracci meccanici, carica il cassonetto e lo svuota nell’ampio contenitore. Questo in teoria, perché i bracci meccanici non pare funzionino molto bene: non si contano i cassonetti che cadono da tre metri di altezza e i sacchetti che dai cassonetti non vanno a finire nell’autocompattatore, bensì si spargono per terra. Tanto che è necessario un secondo passaggio di autocarro più piccolo con cassone scoperto con equipaggio di due/tre persone con il compito di raccogliere i sacchetti sparsi (e gettati alla rinfusa nel cassone senza riguardo al contenuto) e di rialzare i cassonetti caduti e (molto) ammaccati.

Non ho finito. Non esiste un concetto univoco di cosa mettere nei sacchetti. Faccio qualche esempio. Qualche città continua a definire i rifiuti derivanti dagli alimenti come “organico”. Altri allargano il concetto di questi rifiuti allargandolo ai rifiuti “compostabili” senza comunque avere una definizione univoca. Faccio un esempio: la carta va conferita con la carta solo se è pulita. I contenitori per le pizze, tanto per fare un esempio, si possono conferire con la carta solo se non ci sono residui di pomodoro o mozzarella, se no vanno nel compostabile, ma solo se c’è l’apposita scritta.

La plastica. La plastica non va tutta nella plastica, ma solo i “contenitori”. Approfondendo la questione si scopre che la plastica riciclabile è solo quella per la quale i produttori pagano il contributo al consorzio per lo smaltimento. Questione di soldi, quindi. Infatti – fino a qualche tempo fa – forchette, coltelli e piatti di plastica – non si potevano inserire nello smaltimento “plastica”. Ora sì perché si sono aggiustati con il suddetto consorzio.

Meno male che c’è Sant’Indifferenziato. Secondo le varie “istruzioni per l’uso” distribuite dai Comuni non è ben chiaro cosa sia l’indifferenziato, se non la categoria residuale dopo aver escusso quella della carta, della plastica/metallo, dell’organico/compostabile e della carta. Ma cosa sia in concreto nessuno lo sa: oggetti i cui componenti di plastica e metallo non siano separabili? Oggetti i cui produttori non si siano “aggiustati” con il Consorzio? Molto pragmaticamente, gli utenti intendono che “indifferenziato” siano tutti i rifiuti non differenziati, ossia tutto insieme (grande valvola di sfogo).

Come si è visto non è un problema di semplice risoluzione, anzi, più si va avanti al grido “salviamo il pianeta” più il problema dei rifiuti si aggrava, con la risalita esponenziale della TARI e la sporcizia che regna per le strade.

Ma non c’è un altro modo? Una differenziazione a valle, per esempio? Una norma che intervenga sul Packaging, imponendo che esso non contenga plastica o altre sostanze inquinanti, che siano vietate le “bolle di plastica” usate per contenere le pennette USB in bella mostra sugli scaffali dei negozi?

Mi ricordo che, quando ero bambino, e in casa eravamo in cinque, non si riempiva più di un secchio al giorno con tutti i rifiuti. Mi ricordo che il latte era venduto in bottiglie di vetro con il “vuoto a rendere”, ossia dovevi riportare le bottiglie vuote se non volevi pagare il costo della bottiglia. Stesso discorso per l’acqua minerale, comunque appannaggio di pochi: si beveva l’acqua del rubinetto; le bottiglie di plastica semplicemente NON esistevano.

Le persone diversamente giovani ricorderanno che quello che ora fanno negozi “ecologici” era la normalità cinquanta anni fa: la pasta, i fagioli, praticamente ogni cosa, erano venduti a peso o a quantità, senza il rutilante packaging odierno. Meno contenitori meno rifiuti.

Lascio a voi queste note. Sarei felice di conoscere cosa ne pensiate.