Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. (*)
Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36
(*) Errata corrige: inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all’inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. – 404 a.C.)
La polemica sulla opportunità di rimuovere o meno i simboli di un passato negativo non è solo in America (ne ho scritto diverse volte: “La storia non può essere cancellata”, ”C’era una volta l’America”, “Non guardiamo ieri con gli occhi di oggi”) ma, complici le elezioni politiche del 25 settembre 2022 che – a dire di alcuni – potrebbero riportare il fascismo in Italia, è approdato anche nel nostro Paese.
Crescono i fautori della cancellazione dei simboli di quel ventennio oscuro di dittatura, come se i simboli, da soli, potessero decidere l’orientamento politico italiano o la sopravvivenza o meno della nostra democrazia.
Ci pensavo ieri, durante una passeggiata in montagna, in Campania, fra Montella e Acerno c’è una cascata, una chiusa e un ponte che chiaramente riporta ancora le insegne dei fasci littori. Più precisamente si tratta del “Sentiero dello Scorzella a Montella” che parte dal Km.40,800 della S.S: 164 (sentiero CAI 141) e corre – dopo la chiusa – lungo un torrente che, in estate, si percorre con scarpette da fiume e costume da bagno. Ieri il tempo era pessimo, ma in una bella giornata estiva, piena di sole, il percorso in acqua, ombroso, è molto invitante.
Vicino alla chiusa si trova un ponte, costruito chiaramente durante il ventennio fascista, come si vede chiaramente dai fasci littori ai lati e dalla scritta A. XVII (ossia anno 17° dell’era fascista)
ponte di epoca fascista vicino Montella (AV)
Chiusa e ponte di epoca fascista
È un quadro magnifico di un’opera idraulica costruita in Italia fra il 28 ottobre 1938-e il 27 ottobre 1939. E’ datata secondo un calendario diverso da quello consueto (per noi) che parte dalla (presunta) nascita di Cristo. Ci sono tanti calendari sulla terra.
Ma, ovviamente, il punto non è questo. Il punto è che – secondo alcuni – quei simboli debbono essere rimossi.
Mi domando se quei simboli debbano scontare una colpa per il solo fatto di esser nati, ossia di esser stati scolpiti. Mi domando se quei simboli abbiano davvero il magico potere di influenzare il corso della politica italiana, di riportarci verso il fascismo o di favorirne la rinascita.
Per me è solo un ponte che, come il Colosseo o la Basilica di San Pietro porta su di sé i segni dell’epoca in cui fu edificato. Togliere quei simboli vorrebbe dire deturpare inutilmente un manufatto che ha un suo indubbio fascino del tutto indipendente dal periodo politico in cui fu costruito.
Scommetto che pochissimi fra i lettori di questo post ne conosce l’esistenza e che nessuno verrebbe influenzato da tale opera nell’espressione del voto.
Ma in Italia di simboli che richiamano quel periodo buio ce ne sono a bizzeffe e che solo le persone che ragionano per ideologia e non con razionalità vorrebbero abbattere.
Ne voglio citare due esempi, uno eclatante e famosissimo e un altro diffusissimo per quantità ma completamente sconosciuto nella specifica particolarità.
Partiamo da un obelisco. Roma è la città degli obelischi, moti trasportati dall’Egitto, altri edificati ai tempi dell’Impero. Uno, famosissimo, si trova al Foro Italico proprio vicinissimo allo Stadio Olimpico e per tutta la sua lunghezza, oltre 17 metri, porta incisa, in caratteri cubitali, la scritta “MUSSOLINI DUX”. È lì da 1932; talvolta qualcuno, da ultimo Laura Boldrini, quando era Presidente della Camera, propose di togliere via la “frase incriminata”. Non ci fu seguito dopo le giuste obiezioni di storici ed architetti. Posso citare lo storico Vittorio Vidotto che non può essere certo tacciato di vicinanza al Fascismo.
Vidotto, in una intervista al quotidiano “il Foglio”, spiega perché non bisogna abbatterei simboli della nostra Storia, buona o cattiva che sia, e che non sono i simboli a fare la storia, tanto che il Partito Comunista Italiano celebrò proprio al Foro italico, sotto quell’obelisco, la festa per il ritorno all’attività politica di Palmiro Togliatti dopo l’attentato, dimostrando che le scritte del ventennio, di cui Roma è piena, non smuovono voti.
obelisco del Foro italico
L’obelisco, poi, entra anche nel campo dell’esoterismo. Due studiosi, Bettina Reitz-Joosse dell’università di Groninga e Han Lamers dell’università di Lovanio hanno rivelato qualche anno fa, come riporta questo articolo di Repubblica, che hanno studiato e tradotto il cosiddetto “Codex Fori Mussolini” sepolto sotto la base dell’obelisco. Gli studiosi, prendendo dati e scritti da altre fonti, hanno rivelato un messaggio non diretto ai contemporanei, bensì una specie di “capsula del tempo” destinata a raccontare la Genesi del Foro italico e del fascismo una volta che l’obelisco, e quindi il Regime, fosse stato abbattuto.
obelisco al Foro italico
L’altro esempio è sotto i nostri occhi, da anni ed anni ed anni; ci camminiamo letteralmente sopra. Fateci caso, allora: quando mettete i piedi su una delle pesanti chiuse in ghisa dei tombini stradali: quanti di essi hanno , sopra, simboli fascisti? Tanti, ve lo assicuro. Nessuno ha mai pensato di buttare via i soldi per sostituire quelle chiuse finché svolgono il loro dovere. Ma non solo tombini, anche fontane, come i celebri “nasoni” di Roma.
chiusa di tombino a Pomezia
“nasone” con fascio littorio
chiusa di tombino
Secondo voi la permanenza di queste chiuse o di queste fontane può spostare voti o indirizzare la nostra democrazia verso il ritorno del fascismo?
Ritengo proprio di no. La democrazia l’hanno riconquistata i nostri padri e i nostri nonni e tocca noi, a noi persone, difenderla. I simboli sono innocenti, a meno di non fare come nel celeberrimo romanzo di George Orwell, 1984, in cui la Storia veniva continuamente riscritta per adattarla alle contingenze del regime.
I simboli sono parte di noi, della storia della nazione, dell’umanità. Fungono da ricordi, perché il ricordo di quanto è accaduto serva da esempio se buono, da monito se cattivo.
Stiamo già assistendo ad una profonda manipolazione della Storia (sì, con la S maiuscola) e non ce ne accorgiamo. Quando non sappiamo qualcosa, ci rivolgiamo ad internet ed alla sua sterminata memoria e non ci accorgiamo che, se non sono copie e/o riproduzioni, su internet la grandissima massa di documenti non è più anziano del 1991, perché, prima, internet era appannaggio solo delle università e di un ristretto numero di professori, studenti e ricercatori.
Pochi sanno che il prefisso www. (= world wide web) che, ora, Google ha anche tolto di mezzo nelle ricerche perché si dà per scontato, era solo uno – ed il più recente – prefisso degli indirizzi di internet. Parole come Gopher, Archie, WAIS , Veronica e BBS sono nomi che agli attuali utilizzatori di internet dicono poco e nulla, eppure essi erano internet prima dell’avvento del web.
Se a questa carenza aggiungiamo anche l’abolizione di simboli che ci ricordano il nostro passato, allora avremo un eterno presente in cui una esperienza passata viene subito dimenticata e non potrà poi servire al progresso dell’umanità che proprio sulle esperienze si basa.
Se un simbolo ricorda una esperienza negativa (negativa per l’epoca attuale, per quella passata non lo era, per quella futura non si sa), basta citarla, basta contestualizzarla, come, per esempio ponendo una targa che ricordi quanti crimini furono allora commessi e come siamo orgogliosi di aver superato quell’epoca.
Vengono stravolte anche parole neutre che mai avremmo pensato avessero una connotazione negativa.
Fino a pochi anni fa, in corretto italiano, una persona dalla pelle scura era detto “negro” senza alcuna connotazione negativa. Parola neutra. Oggi, dall’altra parte dell’Atlantico, da quell’America impazzita ci vien detto che, da loro, la corrispondente parola inglese “nigger” è una parola vietata perché razzista e neppure noi dobbiamo usarla.
Si rischia il ridicolo come in quella partita internazionale in cui al “quarto uomo” dell’UEFA, un rumeno fu chiesto chi avesse commesso il fallo. Lui , innocentemente rispose, in rumeno rispose ,” quello lì col numero x, quello negro”, senza alcuna connotazione razzista. L’hanno sospeso.
Come dico spesso, cerchiamo di ragionale con la testa e non con la pancia, di pensare col nostro cervello prima di parlare e non scimmiottare i post interessati dei social.
Oggi Putin ha urtato contro l’Europa. Una lunga filippica ripetuta al G20 dal suo ministro Lavrov
Solita filippica contro l’Occidente che ha sbagliato tutto, che ha cercato di mettere la Grande Madre Russia in ginocchio con ridicole sanzioni che non hanno minimamente scalfito la sua florida economia.
Insomma la solita propaganda.
Una novità c’è: Putin ha solennemente affermato che, in Ucraina, la Russia non ha neppure cominciato e che “voi umani non immaginate neppure cosa ora faranno i russi”.
Pur non avendo alcuna contezza di quello che passa per il cervello di Putin, sorge spontanea una domanda
Se la guerra all’Ucraina doveva essere una “blitzKrieg”, tanto da non meritare neppure il nome di “guerra”, se doveva durare tre giorni appena per annettere l’Ucraina “creata da Lenin”, perché non lo si è fatto?
Perché la guerra, penosa e gravida di tanti morti fra i civili e tanti fra i soldati russi mandati al fronte senza dirglielo, va avanti da più di 110 giorni?
Se i russi sono tanto forti come afferma oggi il loro leader dagli occhi di ghiaccio, se “non hanno ancora cominciato” perché la guerra di Golia contro Davide non si è ancora conclusa?
Se l’economia russa non è stata ancora scalfita, perché il dissenso interno, con i processi ai dissidenti, comincia a farsi sentire?
È un dato di fatto che in più di 110 giorni di guerra, la Russia ha conquistato solo una piccola parte dell’Ucraina e, per la maggior parte, territori già filorussi.
Ho paura.
Ho paura che siano ancora parole di propaganda. Di propaganda di chi ormai si sente all’angolo. E se un folle si sente all’angolo potrebbe essere tentato di tentare l’intentabile, ossia usare veramente l’arma nucleare.
Armi tattiche, in territorio ucraino in modo da non sfiorare neppure l’articolo 5 del Trattato NATO, ma pur sempre molto più potenti di quelle usate dagli americani ad Hiroshima e Nagasaki.
Ma la Corte suprema in realtà ha fatto molto peggio: ribaltando la sentenza Roe contro Wade del 1973, ha risposto alle istanze dei conservatori che ritengono l’aborto un omicidio premeditato a danno di un minore ovvero, data la dimensione del fenomeno, una strage organizzata degli innocenti, tanto che l’ex Presidente Trump ha dichiarato che “è stata la mano di Dio!” a guidare i giudici della Corte suprema.
Dicevo che la Corte Suprema ha fatto di peggio, ha fatto come Ponzio Pilato, se ne è lavata le mani. Non ci rompete più le scatole, hanno detto in sostanza, l’aborto non è garantito dalla Costituzione, quindi siano i singoli Stati a decidere se equiparare l’aborto all’omicidio [premeditato e di “minore”].
Dovete sapere che in USA non sempre la competenza a indagare e giudicare sui casi di omicidio appartiene ai singoli Stati. Alcuni reati, fra i quali alcuni gravi casi di omicidio, appartengono alla giurisdizione federale fra i quali omicidio di agente CIA o DEA o di altre agenzie federali, omicidio di membri del Congresso, ma anche (chissà perché?) distruzione di velivoli, omicidi commessi nei parchi o lungo le autostrade o in piattaforme marittime o durante la navigazione o relativo a sfruttamento dei bambini.
L’elenco, (completo cliccando qui) appare comprendere gli omicidi più gravi sottraendoli alla giurisdizione dei singoli Stati ed attribuendoli all’FBI e ai giudici federali.
L’aborto, nonostante l’urlo dei conservatori che il reato sia gravissimo perché è un omicidio premeditato a carico di chi non si può difendere e che sia in atto una strage di bambini uccisi nel ventre materno, è stato “derubricato” a reato comune, per il quale 50 Stati diversi potranno, ad onta di una unica fattispecie, decidere 50 modalità di prosecuzione, 50 tipologie di processo, 50 pene diverse, dalla non punibilità alla pena capitale.
Mi sembra un po’ contraddittorio tutto ciò.
Ma l’America (o quello che ne resta) ci ha abituato a queste sue continue contraddizioni.
Prendiamo lo scabroso tema del razzismo e della criminalità in cui sono coinvolti neri.
Lo schema è il solito: un nero viene ucciso da un bianco (meglio se è poliziotto) e si scatenano le violenze.
Per non andare troppo lontano, ricordiamo il sacco di Baltimora conseguente alla morte di Freddie Carlos Gray jr., arrestato il 12 aprile 2015 perché trovato in possesso di un coltello e deceduto in seguito alle botte ricevute durante il trasporto alla stazione di polizia. Numerosissimi negozi svaligiati, polizia impotente, eppure la colpa viene data più alla condizione di sottoproletariato che ai singoli criminali che hanno svaligiato negozi.
Fa notizia la morte, nel 2021, di 18 neri disarmati arrestati dalla polizia in tutti gli USA, mentre viene passata quasi sotto silenzio che l’anno precedente erano stati uccisi 9941 neri per la stragrande maggioranza uccisi da persone del loro stesso gruppo etnico [fonte: F.Rampini: Suicidio Occidentale]. Praticamente c’è un tabù nel raccontare la violenza Black on Black.
Manifestazioni molto violente anche dopo l’orrenda uccisione di George Floyd il 25 maggio 2020. L’efferato delitto porta a giorni e giorni di violente manifestazioni e saccheggi che non hanno colpito solo gli eleganti negozi dove i bianchi fanno shopping, ma anche il Bronx dove risiede un’alta percentuale di afroamericani e dove gli stessi negozi sono di proprietà di neri.
Eppure queste violenze criminali sono state, se non giustificate, comprese dall’opinione pubblica democratica che così sfoga il proprio senso di colpa. Un esempio viene da Nikole Hannah-Jones, stella del giornalismo Black e premio Pulitzer che, intervistata sulle violenze, afferma “Certo che mi disturba vedere persone che assaltano negozi e rubano ma distruggere le proprietà altrui non è violenza, perché la proprietà può essere sostituita. I saccheggi non sono violenza, sono un reato contro la proprietà privata. Il saccheggio consente ai neri di approvvigionarsi di beni di consumo che il bianco compra usando il portafoglio”. La vecchia spesa proletaria, insomma. Strano discorso per un Paese che si vanta di dare un’opportunità a tutti di conquistare l’American dream!.
Eppure la Polizia fa ben poco per la repressione: nonostante l’arresto e, poi, l’esemplare condanna agli autori dell’omicidio di George Floyd, il grido che si leva dalle piazze fu “defunding Police” (togliere i fondi alla Polizia), slogan abbracciato anche dalla Ocasio-Cortez. Il senso di colpa, provocato dalla convinzione che tutte le violenze avevano come comune origine la schiavitù e il razzismo, provoca, nel 2020, un aumento del 30% degli omicidi in tutta l’America.
E qui tocchiamo il punto più caldo dell’involuzione dell’America odierna: la riscrittura della storia. Ne ho già parlato in due precedenti post “La Storia può essere cancellata. E spesso lo è stata”. E “Non guardiamo ieri con gli occhi di oggi” e ne ho trovato la conferma sia nel già citato libro di Federico Rampini “Suicidio Occidentale” sia nelle affermazioni di, anche lei già citata, Nikole Hannah Jones che, nel 2019, ha lanciato un progetto per cambiare radicalmente il modo in cui veniva considerata la schiavitù negli Stati Uniti, in occasione del 400° anniversario dell’arrivo dei primi africani in Virginia. Hannah-Jones ha prodotto una serie di articoli per un numero speciale del New York Times Magazine intitolato The 1619 Project. L’iniziativa e “mira a riformulare la storia del paese ponendo le conseguenze della schiavitù e i contributi dei neri americani al centro della nostra narrativa nazionale“. Il progetto prevede saggi di vari scrittori e accademici, tra cui lo storico di Princeton Kevin M. Kruse, l’avvocato di formazione ad Harvard Bryan Stevenson, il sociologo di Princeton Matthew Desmond e la storica del SUNY Anne Bailey. Nel saggio di apertura, Hannah-Jones ha scritto “Nessun aspetto del Paese che si sarebbe formato è scevro dagli anni di schiavitù che seguirono“.
Nel 2020, Hannah-Jones ha vinto un Premio Pulitzer per i commenti per il suo lavoro sul progetto 1619. La motivazione ha citato il suo “saggio ampio, provocatorio e personale per l’innovativo Progetto 1619, che cerca di porre la riduzione in schiavitù degli africani al centro della storia dell’America, stimolando il dibattito pubblico sulla fondazione e l’evoluzione della nazione” Il suo articolo è stato criticato dagli storici Gordon S. Wood e Leslie M. Harris, in particolare per aver affermato che “uno dei motivi principali per cui i coloni decisero di dichiarare la loro indipendenza dalla Gran Bretagna era perché volevano proteggere l’istituzione della schiavitù“. Si è anche discusso se il progetto suggerisse che la nazione fosse stata fondata nel 1619 con l’arrivo degli africani ridotti in schiavitù piuttosto che nel 1776 con la Dichiarazione di Indipendenza. Parlando con l’opinionista del New York Times Bret Stephens, Hannah-Jones ha affermato che il suggerimento di considerare il 1619 come un punto di partenza per interpretare la storia degli Stati Uniti è sempre stato così evidentemente metaforico che era ovvio.
Da qui nasce il “senso di colpa” che pervade gli americani, o, almeno, quelli che votano il partito democratico.
Un senso di colpa che viene instillato anche nelle nuove generazioni, per cui non è difficile che qualche aspirante star, in un qualsiasi campo, politico o dello spettacolo, si “inventi” origini di minoranze oppresse, neri o nativi, perché il favore che accompagna queste categorie spesso può dare la spinta giusta ad una carriera.
Non c’è dubbio che la schiavitù sia stata una orribile macchia nella storia degli Stati Uniti d’America, soprattutto perché, sebbene la tratta degli schiavi fosse stata formalmente abolita nel 1807, continuò fino al 1865 [fine della guerra civile] con l’approvazione del 13° emendamento alla Costituzione, quando la maggior parte degli Stati europei l’aveva già abolita da un bel pezzo.
Come dicevo, il senso di colpa rimane e ha portato ad eccessi incomprensibili per una mente europea e a contraddizioni notevoli.
Per esempio si abbattono le statue di Cristoforo Colombo, disconoscendo i meriti di navigatore e ricordando solo che egli – fra le altre cose – portò schiavi da una parte all’altra dell’Atlantico. Questo discorso potrebbe essere accettato [la tratta è un grosso reato, ma lo è oggi]: senza voler tornare indietro agli imperi romani, greci ed egiziani costruiti letteralmente sugli schiavi, alla fine del 1400 la schiavitù era pratica corrente per assicurarsi mano d’opera a basso prezzo. Allora non c’era la consapevolezza di stare commettendo una azione esecrabile. Anche la Chiesa considerava i nativi sudamericani e africani come non umani ed esseri senza anima e tollerava la schiavitù.
Protestors topple a statue of Christopher Columbus during a demonstration against government in Barranquilla, Colombia on June 28, 2021. (Photo by Mery Grandos Herrera / AFP)
La logica vorrebbe che si insegnasse oggi quanto fosse errato il concetto di disuguaglianza fra gli esseri umani. Ma no, gli americani, nel loro furore iconoclasta, distruggono – forse per lavarsi la coscienza – ogni simbolo che possa ricordare le passate leggi razziste. Se distruggete i simboli, come farete ad indicare che quel simbolo celebrava qualcosa che oggi si ripudia?
Ho parlato di contraddizioni e ce ne è una lampante: gli americani vogliono cancellare ogni simbolo che ricordi la schiavitù, aboliscono il Columbus Day, ma nulla dicono su due simboli di schiavisti che hanno in mano tutti i giorni: sulla banconote da un dollaro c’è l’effige di George Washington e sulla banconota da due dollari c’è è l’effige di Thomas Jefferson, due Presidenti ma anche due famosi schiavisti.
Ma spinto dal Partito e nell’intenzione di ottenere un appoggio politico corale alla sua azione, il 6 agosto 1861 firmò l’atto di confisca che autorizzava i procuratori giudiziari a catturare prima e a rendere liberi poi tutti gli schiavi (ma solo quelli) che erano usati per sostenere lo sforzo bellico confederato.
Contraddizioni, dicevo e contraddizioni anche in politica. All’atto della sua elezione Biden affermò che avrebbe rotto i ponti con la politica “bilaterale” di Trump, tornando al multilateralismo e alla piena collaborazione con gli alleati europei. Beh, proprio nel momento in cui in Europa si fa strada una riflessione sugli effetti delle sanzioni a Mosca e della fornitura di armi pesanti a Zelensky, Biden, senza consultare gli alleati promette all’Ucraina armi sempre più sofisticate, avvalorando la tesi che quella in Ucraina non sia una guerra di resistenza, bensì una guerra, sia pure per procura, contro la Russia. La fuga dall’Afghanistan e il non intervento in favore della popolazione massacrata nello Yemen son già dimenticate.
Quello che rimprovero agli americani è la loro pretesa di possedere la verità assoluta: quello che va bene per l’America, deve andare bene per gli altri; quello che è il pensiero dominante degli americani deve essere il pensiero dominante universale. Se Colombo deve essere ricordato solo come schiavista, questo è il marchio che deve avere in tutto il mondo.
Altro esempio è quello dell’estremo politically correct iniziato forse con il #MeToo, nato nel 2017 per combattere – giustamente – le molestie sessuali, spesso impunite o non portate alla luce. Solo che, ormai, basta dire una parola (da loro, non dal codice) considerata non dico sbagliata, ma solamente non consona, che il “presunto colpevole” venga crocifisso e condannato prima ancora che inizi il processo che può anche concludersi con una assoluzione e la condanna dell’accusatrice, vedi il processo contro Johnny Depp conclusosi con la condanna dell’ex-moglie, ma solo dopo che l’attore era stato condannato dai media per violenza.
D’altronde gli americani sono fra i popoli “occidentali” quelli che viaggiano di meno, solo la metà di essi possiede un passaporto, e non viaggiare significa avere una conoscenza del mondo esterno mediata solo dalla TV e dai giornali, come da noi, ampiamente schierati e politicizzati.
Ho idea che gli Americani non siano, poi, molto cambiati dai tanto celebrati Padri pellegrini che sbarcarono in Massachusetts nel 1620 con il Mayflower e che diffusero la cultura puritana che ancora oggi permea l’America. Mentre gli americani ricordano e celebrano ogni anno con il giorno del ringraziamento, non vennero nel nuovo mondo di loro spontanea volontà e per diffondere il Verbo, ma perché “cacciati” dall’Inghilterra in seguito alla scissione dalla Chiesa anglicana.
Però, però – in fondo – ammiro gli americani e la loro nazione: la loro democrazia è la più forte, permettendole di resistere – senza danni apparenti – finanche ad un colpo di stato organizzato da un Presidente ancora in carica e ad un assalto armato al Congresso. Gli Stati uniti sono una fucina di idee in tutti i campi: le migliori idee negli spettacoli, nelle scienze, nella tecnica, da lì vengono e fanno scuola nel mondo.
Gli USA hanno quello che alla vecchia Europa manca: la capacità di rinnovarsi velocemente ed adattarsi alle nuove esigenze che la globalizzazione produce.
Nel frattempo la vecchia Europa cosa ha prodotto? Una classe politica ingessata, fenomeni politici durati lo spazio del mattino come i Cinquestelle o i Gilet gialli, buoni solo ad essere “contro”, a proporre l’abolizione della povertà o l’abbassamento dell’età pensionabile senza pensare alle coperture.
Abbiamo forze politiche che, nel giro di una notta, per raccattare qualche voto in più, compiono contorsioni che neppure un artista da circo immagina.
Chissà, oltre alle magagne USA mi sono soffermato più sulla pagliuzza nell’occhio del vicino, dimenticando la trave nel mio.
Ma questa è un’altra storia.
Ma, oggi, 3 luglio 2022, c’è un’altra storia che mi convince sempre di più della follia collettiva degli americani. Cosa c’è di più finto di un film? La settima arte è la culla della finzione. Eppure ora in quella che fu l’America il dibattito è: è giusto che un doppiatore bianco dia la sua voce ad un attore di colore?
Pare che non sia giusto perché lede la sua essenza di persona afroamericana? Sono pazzi questi americani.
Domenica sera, nella trasmissione de LA7 “in Onda” alla pressante domanda “Ma perché diamo tante armi a Zelenky?”, Pier Luigi Bersani ha dato la risposta della “sinistra”. “Non pensiamo che l’Ucraina possa vincere, ma dandole le armi giuste per combattere, potremo portarla ad un livello tale da raggiungere un compromesso onorevole con la Russia.”. Ho sempre avuto stima di Bersani, ma stavolta mi ha fatto cadere le braccia. Praticamente ha sposato la tesi del logoramento russo propugnata da Biden. Ti dò armi non per farti vincere, non perché sei stato invaso, ma perché mi fa comodo indebolire Putin. Questa è la conclusione perché è scontato che, per quante armi tu possa dare all’Ucraina, senza un intervento diretto con le armi più sofisticate (politicamente impossibile) dei Paesi NATO, mai e poi mai la terra di Zelensky potrà pareggiare l’arsenale bellico russo. Bersani parla, poi, di “compromesso”. La parola stessa significa “reciproche concessioni”. E quali sarebbero? Allo stato la Russia ha già occupato tutto i Donbass, non solo le autoproclamate repubbliche separatiste, ma anche, oltre la Crimea, il corridoio terrestre che congiunge la penisola al territorio russo. Di qui a qualche giorno probabilmente occuperà anche Odessa tagliando ogni accesso al mare all’Ucraina. Questo per la Russia è un fatto acquisito. Quali saranno le concessioni che la Russia potrà fare? Di non andare oltre? E quali concessioni potrà fare il povero Zelensky? La promessa di non rivendicare più i territori occupati dai russi? Un po’ come le alture del Golan da decenni rivendicare inutilmente dalla Siria ma che Israele si guarda bene dal restituire? La questione ormai è fuori dalle mani di Zelensky e degli europei. Potrà essere risolta solo, come al solito, fra Biden e Putin. Biden rinuncia al piano di 33 miliardi di dollari di armamenti (tanto non si sa se il Congresso glielo passa) e Putin si ferma allo stato di fatto attuale, magari concedendo all’Ucraina uno stretto corridoio al mare fra Odessa e la Transnistria. Quello che rimane dell’Ucraina entrerà nell’Unione Europea, non nella NATO e verrà ricostruito con i nostri soldi. Forse questo è un “compromesso” possibile.
Ma quanto costa Zelensky a noi? Non solo di rincari dell’energia e di ogni prodotto al supermarket (complici anche i negozianti: ‘sta cosa mi ricorda quello che successe con lo arrivo dell’euro), ma anche in moneta sonante, visto che Biden ha chiesto agli “alleati” di versare la loro quota sui 33 miliardi di dollari stanziati dagli USA e 3 miliardi in meno si farebbero sentire per l’Italia. Non è che io sia personalmente contrario all’invio di aiuti all’Ucraina, barbaramente invasa dalla Russia. Zelensky, come Capo di un Paese ha tutto il diritto di decidere se combattere, aumentando i morti, o salvare più vite, ma sottomettendosi al giogo sovietico. La scelta (non sappiamo se autonoma o indotta) l’ha fatta. Quello che mi lascia perplesso è l’inutilità della fornitura di armi. Qualche carrarmato, qualche missile anticarro, un paio di batterie contraeree basteranno per colmare il gap militare fra i due contendenti o serviranno solo ai piani di Biden di rallentare e sfiancare la Russia? Anche le sanzioni non penso siano molto efficaci: oltre alle solite triangolazioni, salvo una ristretta cerchia di oligarchi e benestanti a Mosca e a San Pietroburgo, la massa della popolazione russa è parecchio al di sotto dei nostri standard e non si preoccuperà certo di non poter comprare un’auto nuova o una lavatrice. Qui siamo di fronte ad un accadimento nuovo. Di solito in una guerra ci sono due contendenti. Gli altri Paesi aiutano l’uno o l’altro per favorirne la vittoria finale e la contemporanea sconfitta dell’altro. In questa strana guerra è come se ci fosse, suo malgrado, un solo belligerante, l’Ucraina. L’altro, la Russia, è intoccabile. I Paesi che decidono di stare a fianco a Zelensky, più di dargli da mangiare e qualche cannone, non possono. Non possono intervenire per riequilibrare le sorti del conflitto con interventi seri ed efficaci perché entrare in conflitto con la Russia significherebbe dare il la ad una guerra nucleare che nessuno vuole. Quindi fornire queste “piccole” armi, queste spiate dell’intelligence, queste coordinate di obiettivi, senza un intervento che pareggi la forza militare, mi appare come fornire le cure palliative ad un malato terminale: se ne prolunga solo l’agonia senza mutare l’esito minimo e scontato: la Russia terrà la Crimea e il Donbass e il corridoio terrestre che li unisce e chissà se si fermerà lì. Aumenterà solo il costo in vite umane, ma proseguire o meno è una decisione che spetta solo a Zelensky. Noi occidentali, però, soprattutto sui veri scopi di Biden con l’elmetto che pretende la nostra compartecipazione ai 33 miliardi stanziati dagli USA, qualche interrogativo dovremmo porcelo. E, soprattutto, se i veri scopi di Biden coincidono con i nostri.
Nineeleven. Ero in ufficio impegnatissimo a rendere meno brutta la legge Bossi-Fini sull’immigrazione. Non avevo tempo per stare davanti alla TV. Mi accertai che i miei cari a N.Y C. stessero bene e mi riimmeersi nel lavoro. Forse fu un bene. Le tremende immagini delle falling towers e dei falling men non le vidi in diretta, ma solo nei notiziari, come tutte le atrocità del Viet nam. Per me la caduta delle torri gemelle sono relegate nella memoria dei TG, come i terremoti del Friuli o di Gibellina o la catastrofe del Vajont. Ho visitato, nel febbraio 2020, il memorial delle torri gemelle, con le fontane nere e l’Oculus. Ma le ricordo come monumenti alla memoria, non come attualizzazione dei fatti. La mia psiche è fortunata. Il mio ricordo va alle migliaia di morti innocenti, ma non posso dimenticare che quelle migliaia di morti innocenti furono “vendicati” uccidendo altrettante persone innocenti in altre parti del mondo. Un solo pensiero: decidiamo che “Imagine” di John Lennon diventi l’inno di tutto il pianeta. 🌹
Interessante articolo di Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera. La soluzione militare in Afghanistan c’era, ma è stata perseguita solo dai talebani. Gli occidentali cercavano “operazioni chirurgiche”, temevano gli “effetti collaterali” si stracciavano le vesti ogni volta che un “civile” (ma ci sono civili in Afghanistan?) Rimaneva vittima di un loro attacco. I Talebani invece – secondo Cremonesi – “hanno trionfato contro la coalizione internazionale più potente dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale proprio con la forza. E di una forza brutale, primitiva, essenziale. Due decadi fa erano ridotti all’ombra di loro stessi. Battuti, cacciati dalle basi storiche, uccisi a migliaia. Ma si sono ripresi, hanno combattuto anche da una condizione di assoluta inferiorità, sono stati pronti a morire e sacrificare i loro figli. Hanno vinto grazie a sofferenze indicibili.” “Scenari simili si sono ripetuti in Libia, Siria, Iraq, Yemen: ovunque domina la legge delle armi. Ha vinto chi è stato pronto a utilizzarle senza remore.”. Insomma, sembra sostenere Cremonesi, in guerra vince chi combatte la guerra senza remore. A’ la guerre comme à la guerre. Senza remore e falsi pietismi. Alla fine le incertezze, le titubanze hanno lasciato un Afghanistan di nuovo pieno di burka e vuoto di musica Sinceramente non so se posso essere d’accordo. Voi?
Non sono un analista nè un politologo ma ritengo che una avanzata e una conquista così veloce dei talebani non possa essere avvenuta senza il favore e la collaborazione della popolazione (maschile) che, evidentemente, dopo 20 anni, ha chiaramente espresso il suo pensiero sul nostro concetto di democrazia: a loro non piace; preferiscono, come in tante altre parti del mondo, la leadership tribale. D’altra parte, purtroppo, il nostro concetto di democrazia è messo in discussione anche più vicino a casa nostra (vedi le democrature in Polonia e Ungheria). Il modo di governo è difficile da esportare e imporre. Non sviino le immagini folli della fuga da Kabul per paura dei talebani: Kabul non è tutto l’Afghanistan, come la Londra di Khan non è tutta l’Inghilterra, come la New York di De Blasio non sono tutti gli States. In questo contesto il discorso da realpolitik di Biden: “Mai pensato di costruire un Paese, solo di sventare attentati terroristici. Non possiamo combattere al posto di chi non vuole combattere”. Discorso diretto non al mondo ma specialmente agli USA e ai “Red states” americani che tanto peso hanno avuto nel contrastare la sua vittoria su Trump. Purtroppo, in questa storia controversa e dolorosa, in cui solo la Merkel ha parlato “di nostri errori”, sappiamo sicuramente chi ci perde: le donne. Se da noi ancora non riescono a sfondare il soffitto di cristallo, da quelle parti non sono neppure considerate come esseri umani. Purtroppo son state, sono e saranno, senza colpa, solo vittime.
Una “traduzione grezza” in italiano è in fondo a questo post
Il tema mi ha sempre appassionato: la STORIA. La Storia è una sola o sono tante quante sono le persone che la raccontano? La Storia è unica o può essere manipolata o, addirittura, cancellata?
Orbene, Mr. Blow teme che i tentativi del Partito Repubblicano di dilazionare i tempi sia voluto per confondere i ricordi, accumunare le violenze del 6 gennaio a quelle accadute durante le manifestazioni per “Black Live Matter”, per appiattire tutto nelle nebbie del tempo, poter manipolare i fatti accaduti e, in sostanza, cancellare la Storia.
Senza dubbio ciò è avvenuto molte volte. Non a caso esiste il proverbio “La Storia viene scritta dai vincitori”. Solo dopo molto tempo si scoprirà che quella storia, scritta dai vincitori, potrebbe essere manipolata o, addirittura, inventata.
Mr. Blow racconta che mancano poche settimane al centesimo anniversario del massacro di Tulsa, quando nel 1921, i cittadini bianchi di quella città – aiutati dalla Guardia Nazionale – distrussero la sezione di Greenwood di quella città, una comunità nera prospera e autosufficiente nota come Black Wall Street, uccidendo fino a 300 persone e lasciando 8.000 senzatetto.
Le autorità fecero di tutto per nascondere e far dimenticare quel massacro, per cancellarlo dalla Storia, per cancellarlo dai documenti pubblici della Città, facendo scomparire i registri della Polizia, seppellendo le vittime in tombe anonime. Il tentativo di modificare la Storia riuscì fino a che Scott Elsworth ne scrisse la storia nel 1982, costringendo i Governanti ad una Commissione di inchiesta che, nel 1992, ristabilì la verità storica.
Fino a questo punto, l’articolo di Charles M.Blow mi trova pienamente d’accordo: Non bisogna cancellare i crimini, non solo per evitare di punire i colpevoli, ma soprattutto per insegnare ai giovani quello che di brutto è successo nel passato e che bisogna assolutamente evitare di ripetere.
Se si cancellassero le tracce dell’Olocausto, o del Nazismo, o del Fascismo, questi orrendi crimini – dimenticati dopo 100 anni dalla gente e senza più testimoni in vita – potrebbero ripetersi. Se si mantiene viva la memoria di questi crimini, l’orrore che hanno provocato impedirà che si ripetano.
Poi, nel prosieguo dell’articolo, Mr. Blow comincia a parlare dei simboli e qui – forse per la mia scarsa conoscenza della lingua inglese – non riesco più a capire il senso di quello che intende sostenere.
Afferma, giustamente, che le statue sono simboli, erette per ricordare grandi uomini o grandi accadimenti. Ma afferma anche che una statua di una persona che ha commesso crimini può fuorviare la memoria; Anche per questo i monumenti sono spesso usati come strumenti di propaganda, perché hanno contribuito a creare false narrazioni che alterano la memoria collettiva e che molti monumenti dai confederati furono eretti proprio a tale scopo.
Riprende, poi, il discorso dell’abbattimento delle Statue (ne ho già parlato qui: https://sergioferraiolo.com/2020/06/10/non-guardiamo-ieri-con-gli-occhi-di-oggi/), della falsa fama data a Cristoforo Colombo che, in realtà era uno schiavista, dei falsi trattati stipulati con i nativi. Afferma, infine, che, anche quando registriamo le cose, per iscritto, o con la fotografia o anche con il video, qualcosa si perde nel trasferimento: il rigore, la solennità, l’impatto.
Qui – se la mia scarsa capacità di comprendere la lingua inglese -non mi tirato un brutto scherzo, comincio a non esser più totalmente d’accordo come prima perché – se non ho sbagliato a capire – Mr. Blow non fa nessuna distinzione: i simboli sono buoni o cattivi, senza via di mezzo. Se una persona ha avuto grandi meriti come navigatore o come politico, ma ha avuto schiavi, deve essere cancellata, cancellando anche i suoi meriti
Bisogna distinguere. La percezione dei fatti varia con il tempo e ogni fatto accaduto va contestualizzato nell’tempo in cui esso è avvenuto.
E’ ovvio che se una statua è stata eretta al solo scopo di esaltare le gesta criminali di un anonimo assassino, essa può essere distrutta senza grande danno per la memoria collettiva e per quella di nasce molti anni dopo.
Il discorso si fa molto più complicato per statue di persone che hanno grandi meriti ed anche demeriti.
Prendiamo proprio l’esempio di Cristoforo Colombo citato da Mr. Blow. Se si pensa a Cristoforo Colombo, si pensa allo scopritore dell’America e non certo al fatto che fosse uno schiavista. Anche perché lo schiavismo, nel 1492, era ampiamente permesso e legale. Chi commerciava in schiavi, dal tempo degli antichi egizi, fino a 250 anni fa non commetteva crimini.
Del resto anche George Washington e Thomas Jefferson avevano schiavi, ma nessuno pensa a togliere la loro effige dalle banconote da 1 e 2 dollari.
Vogliamo abbattere il Colosseo e le piramidi egiziane perché furono costruite da schiavi?
Ma mi spingerò anche oltre. Io non abbatterei una statua di Hitler: io metterei sotto di essa una targa che ricordi ai posteri i crimini commessi da quell’uomo.
A Roma, in Italia, dove la ricostituzione e l’inneggiamento al fascismo sono crimini puniti dalla legge, in una piazza, vicino al Centro sportivo Nazionale, frequentato dai giovani, esiste ancora un obelisco con la scritta “Mussolini DUX”. È rimasto lì a perenne memoria dei crimini di quell’uomo, a perenne monito per i giovani di oggi a non imitarlo, per ricordare le tragedie che il Fascismo ha portato all’Italia.
I simboli sono simboli. Ci sono simboli positivi e simboli negativi. Spesso il simbolo positivo di oggi potrebbe diventare un simbolo negativo domani. La Storia, come dice giustamente Mr. Blow, non si cancella, ma si racconta e si spiega, soprattutto ai giovani.
“Vedi, quella statua fu eretta per confondere la memoria, celebrando una persona che, nella sua vita, non ha fatto altro che uccidere gente di colore e noi, oggi siamo orgogliosi di aver compreso che il razzismo è un crimine, e quella statua sta lì a ricordacelo” – “Vedi, quella è la statua di un grande navigatore che, contro le convinzioni dell’epoca, tracciò una nuova rotta e congiunse l’America all’Europa. Ma questo grande navigatore era anche uno schiavista perché, a quel tempo, lo schiavismo era permesso e noi, oggi, siamo orgogliosi di aver compreso che lo schiavismo è un crimine”
La Storia si evolve, cambiano i sentimenti, cambiano gli ideali e cambiano i giudizi sui fatti del passato. Ma quei fatti rimangono intatti, non si possono e non si devono cancellare perché la Storia non è solo il presente o il futuro; la Storia è anche – e soprattutto – il passato. Il passato dal quale dobbiamo trarre gli insegnamenti, evitando di ripeterne gli errori e cercando di emulare chi, nel passato, ci ha dato grandi prove. Dobbiamo, forse, cancellare Socrate o Alessandro Magno perché nell’antica Grecia era consuetudine avere approcci sessuali con bambini? Condanniamo, certo, gli atteggiamenti che, oggi, riteniamo negativi, ma salviamo e celebriamo la sapienza del filosofo o il coraggio di un condottiero che ha aperto la via dell’Oriente al mondo antico.
Togliere i simboli della Storia, positivi o negativi, significa riempire il cervello con la nebbia dell’ignoranza
At a Tulsa, Okla., Red Cross hospital in 1921, survivors of the Tulsa Massacre recovered from their wounds.
Traduzione (bozza) dell’articolo di Charles M.Blow
Mercoledì, la Camera ha votato per creare una Commissione per esaminare l’insurrezione del 6 gennaio.
Trentacinque repubblicani si sono uniti ai Democratici per approvarlo, ma lo hanno fatto nonostante le obiezioni del leader della minoranza alla Camera, Kevin McCarthy, che si è opposto al disegno di legge. Il leader della minoranza al Senato, Mitch McConnell, si è unito a lui all’opposizione.
La leadership repubblicana al Congresso sembra essere impegnata in uno sforzo coordinato per ridurre e minimizzare l’attacco al Campidoglio degli Stati Uniti, o addirittura cancellarlo tutto insieme.
Una delle ragioni per opporsi alla Commissione è che sarebbe ridondante del lavoro già svolto dal Dipartimento di Giustizia e dallo stesso Congresso.
Ma un altro, usato da McCarthy, era specificamente per confondere l’acqua ampliando l’inchiesta per includere indagini su antifascisti e Black Lives Matter. Era un chiaro tentativo di stabilire un’equivalenza, per ridurre la natura storica dell’insurrezione sollevando contemporaneamente i problemi con altri gruppi.
Vogliono appiattire tutto questo in un’unica massa di cose accadute durante la pandemia, nessuna migliore o peggiore dell’altra, cose che accadono sia a destra che a sinistra ideologica.
Ma queste cose non sono uguali … affatto. Lo sanno. Ma è così che nasce la propaganda e la storia è sepolta. È incredibilmente facile da fare ed è stato fatto spesso.
Mancano poche settimane al 100 ° anniversario del massacro di Tulsa, quando nel 1921, i cittadini bianchi di quella città – aiutati dalla Guardia Nazionale, va notato – distrussero la sezione di Greenwood di quella città, una comunità prospera e autosufficiente noto come Black Wall Street, uccidendo fino a 300 persone e lasciando 8.000 senzatetto.
Una delle cose più notevoli di quel massacro fu lo sforzo concertato della città per cancellarlo dalla storia e quanto fosse efficace quella campagna.
Ora, per essere sicuri, quel massacro è avvenuto prima dei tempi della televisione, di Internet, dei social media e dei cellulari. Ma c’erano immagini, per non parlare delle decine di famiglie che hanno perso i propri cari. C’erano delle tombe.
Come ha riportato il New York Times:
“Dopo il massacro, i funzionari hanno deciso di cancellarlo dai documenti storici della città. Le vittime sono state sepolte in tombe anonime. I registri della polizia sono scomparsi. Gli articoli provocatori del Tulsa Tribune sono stati tagliati prima che i giornali fossero trasferiti su microfilm “.
Il Times continuò: “I funzionari della città ripulirono i libri di storia così a fondo che quando Nancy Feldman, un avvocato dell’Illinois, iniziò a insegnare ai suoi studenti dell’Università di Tulsa sul massacro alla fine degli anni Quaranta, non le credettero”.
A volte sottovalutiamo gli impulsi umani e la natura umana quando presumiamo semplicemente che il ricordo di una cosa, una cosa orribile, durerà per sempre.
Spesso gli autori del reato vogliono disperatamente lasciare che lo stigma svanisca e la vittima esita a trasmettere il dolore ai bambini e alla famiglia. Tutti aspettano il potere curativo del tempo, come la roccia frastagliata lanciata nel fiume che alla fine diventa pietra liscia.
È successo a Tulsa. La prima storia completa del massacro non fu scritta fino al 1982, quando Scott Ellsworth scrisse “Morte in una terra promessa”, e una commissione per studiare a fondo cosa accadde a Tulsa non fu istituita fino al 1997. Il suo rapporto fu pubblicato nel 2001.
Abbiamo la tendenza ad allontanarci dalla pienezza della storia anche quando la verità non è attivamente soppressa. Pensa a cose come quanto fosse orribile Cristoforo Colombo in realtà, o ai massacri dei nativi e a tutti i trattati infranti che hanno contribuito a far crescere la geografia di questo paese, o quanti dei pionieri dei diritti dei gay erano persone trans e drag queen.
Siamo orribili trasmettitori della verità. Siamo anche orribili recettori. È come il gioco che facevi da bambino quando qualcosa veniva sussurrato di bambino in bambino, e ciò che l’ultimo bambino sente non ha alcuna somiglianza con ciò che ha detto il primo bambino.
Anche quando registriamo le cose, per iscritto, o con la fotografia o anche con il video, qualcosa si perde nel trasferimento: il rigore, la solennità, l’impatto.
Questo è il motivo per cui memoriali e monumenti sono importanti nella società, per aiutare la memoria e la riflessione collettiva. Anche per questo i monumenti sono spesso usati come strumenti di propaganda, perché hanno contribuito a creare false narrazioni che alterano la memoria collettiva. Molti monumenti confederati furono eretti proprio a questo scopo.
Quindi, quando vedo i repubblicani che cercano di alterare la nostra percezione dell’insurrezione, non lo prendo alla leggera. Non c’è niente di sciocco o banale al riguardo. La memoria è malleabile. Questa tattica potrebbe ora fallire su 50 e funzionare su cinque, ma tra anni potrebbe essere il rapporto inverso.
Assorbiamo le storie che ci vengono raccontate, troppo spesso senza circospezione, impregnandole dell’autorità del racconto. Quindi, quando le autorità dicono una bugia o sminuiscono qualcosa, molte persone lo accetteranno come detto.