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Se mi chiedessero di definire l’anno 2020 con una sola parola non avrei dubbi. Non certo per distinguermi dai titoloni di giornali di questi giorni “2020, anno disgraziato” oppure “2020, anno sventurato”, per non dire “di merda”, io ho un’altra parola. Non dimentico certo i 70.000 morti, le centinaia di attività imprenditoriali spazzate via, i nuovi poveri, etc. etc. ma su questi temi sono piene le pagine dei giornali. Non mi va di ripetere concetti sui cui i migliori giornalisti si sono espressi molto meglio di quello che posso scrivere io. Dando per assodato i lutti e le disgrazie che questo 2020 ha portato e che hanno tutta la mia attenzione, il mio sentimento e il mio cordoglio, io definirei il 2020 un “anno interessante”.

Sì, interessante, perché ha portato alla luce molti aspetti nascosti del nostro “io” nascosto, dei nostri comportamenti, dei nostri comportamenti. Cosa ci lascia questo 2020?

Non c’è un punto preciso da dove cominciare. Sono tutti connessi con il pensiero dominate rivolto al Coronavirus che ha dominato, senza rivali, l’intero anno.

Abbiamo cominciato presto, a gennaio, con le cronache che riportano notizie da un paese, la Cina, e da una città, Wuhan, che la maggior parte di noi non aveva mai sentito nominare, anche se ha oltre 8 milioni di abitanti ed è uno delle principali città di quell’ancor misterioso Paese. Ancora “abboffati” dalla fine delle festività di fine 2019 abbiamo appreso che a Wuhan si era sviluppato un virus misterioso, molto potente che uccideva o faceva ammalare molto gravemente i suoi abitanti.

Ma era un Paese lontano e anche il perentorio avvicinarsi della malattia sortì solo un impeto di orgoglio: due turisti cinesi trovati positivi al nuovo virus furono subito scoperti ed isolati a Roma. Ok, trovati ed isolati. Come siamo bravi!!!! Tutto OK, ci permettiamo anche di andare a prendere i nostri connazionali in Cina e riportarli qui, una novella Dunkerque, conclusa con grande successo. Una pietra sopra e non pensiamoci più. Non pensarci più fino alla tragica notizia proveniente da un paesino sconosciuto del Nord, Codogno. Da lì in poi i fatti sono noti e non mi ci dilungo.

Mi soffermo invece sulle conseguenze di questi fatti. Il 7-8 marzo si chiude la Lombardia. Il 9 marzo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte firma il primo provvedimento di chiusura generale. Il primo lockdown italiano. Una esperienza unica. Mentre, soprattutto nel Nord, in Lombardia e nel bergamasco, nostri concittadini a centinaia venivano ricoverati o ,peggio, morivano in solitudine, senza una carezza dei parenti, nel resto d’Italia ci siamo trovati chiusi in casa per due mesi. Autorizzati ad uscire solo per necessità di spesa alimentare o salute. Negozi chiusi. Abbiamo sperimentato anche l’autocertificazione, modulo, alle prime un po’ ballerino, dove riportare preventivamente i nostri “necessari” spostamenti.

All’inizio la “novità” fu accolta bene, il sentimento di appartenenza si rafforzò come testimoniano i canti collettivi dai balconi e il gradimento del Governo aumentò di molto.

L’azione del Governo fu decisa, senza (apparenti) titubanze e i cittadini la approvarono. Fu chiaro a tutti che, come ai tempi del Boccaccio e del Decamerone, il distanziamento sociale era l’unica arma contro il virus. Sparirono per oltre un mese mascherine chirurgiche e il flaconcino di Amuchina raggiunse prezzi di affezione. Eppure nel marzo 2020 dimostrammo una inconsueta maturità. Nelle case si rimisero in uso le macchine da cucire, YouTube era pieno di tutorial su come cucire le mascherine partendo da una vecchia federa. Imparammo ad usare metodi di comunicazione alternativi come le video conferenze in Zoom, praticamente sconosciuto prima. Acronimi come DAD divennero familiari e gli insegnanti fecero il miracolo, senza alcuna preparazione specifica e senza preavviso, di mutare il loro rapporto con la classe dalla contiguità fisica all’immaterialità dello schermo, neppure fossimo nel romanzo “il Sole nudo” di Isaac Asimov.

Certo i giornali davano maggiore risalto alla creatività e alla resilienza che alla disperazione di negozianti e ristoratori, da un momento all’altro privati della loro fonte di reddito.

Comunque al sud, almeno per le fasce “garantite” il primo lockdown fu  trascorso senza particolari problemi, soprattutto perché i casi di “positività al virus” erano pochini. Ma, a parte Zoom, mascherine, Amuchina, non uscire di casa, nuovi poveri, cosa ha portato il lockdown? Cosa ci ha fatto scoprire di noi stessi?

Probabilmente due sentimenti contrapposti. Il primo la diffidenza del contatto. Ormai, dopo mesi e mesi se un’altra persona ci viene (troppo) vicino, istintivamente siamo a disagio e ci allontaniamo. Le distanze interpersonali italiane si sono avvicinate a quelle nordiche.

Il secondo è la speculare “mancanza di coccole”. Da quanto tempo non ci salutiamo con un bacio? Con un abbraccio? Con una stretta di mano? È interessante per ognuno di noi capire quanto questi atteggiamenti, una volta spontanei, ci mancano. Mancheranno meno in una famiglia, dove l’affetto è più forte della paura del contagio, mancheranno di più nei single. Ecco, forse una riflessione su quanto questi gesti ci mancano servirebbe.

Abbiamo imparato a comunicare con mezzi nuovi, scelto di usare mezzi diversi per apprendere ed informarci. Internet è stato il protagonista. I fornitori di beni e servizi on-line hanno visto i loro profitti schizzare alle stelle al contrario dei negozi fisici. Molto è cambiato nei servizi di informazione. Fino alla pandemia, i giornali on line erano un invito ad acquistare quelli cartacei: la quasi totalità degli articoli era gratis, quelli a pagamento la minoranza. Oggi la proporzione si è invertita. Giornali come “La Stampa” hanno la quasi totalità degli articoli a pagamento. Le offerte di abbonamento “di prova” per qualche mese a 1 o 2 euro si sono moltiplicate. Ormai per leggere ed informarsi on line bisogna abbonarsi, anche se i prezzi a regime sono molto più alti di quelli da tempo offerti da testate estere, più abituate a questo sistema. Per esempio il New York Times offre da sempre l’intera lettura on line a 2 euro al mese.

Jeff Bezos, il patron di Amazon ha conseguito profitti stratosferici ma, attraverso Amazon Marketplace, molti negozi chiusi hanno potuto appoggiarsi alla più grande piattaforma di vendita on-line. E molti esercenti, impossibilitati a vendere fisicamente, hanno aperto anche un negozio on line. Sul web ormai è possibile comprare anche una pinza venduta dal ferramenta sotto l’angolo.

Non solo beni fisici, ma anche spettacoli, film, concerti. A Netflix si sono affiancate innumerevoli piattaforme ove è possibile guardare, con un prezzo – per ora risibile – film, concerti, spettacoli, comodamente a casa nostra.

La domanda è: quando la pandemia sarà finita, torneremo indietro? O lo streaming continuerà ad affiancare gli spettacoli “in presenza”? Ossia, il teatro, il cinema torneranno ad essere luoghi di incontro, o come per le partite di calcio, la fetta più consistente di introiti verrà tramite la cessione dei diritti TV e/o streaming?

Abbiamo, poi, assistito anche a cose riprovevoli. Appena finito il lockdown stretto è sorto, forse come reazione, il “diritto all’aperitivo” o il “diritto alla movida”. Pur sapendo che negli ospedali i malati morivano come mosche, molti urlavano il proprio diritto a riunirsi, a bere in collettività la mitica bevanda arancione, a passeggiare in gruppo…

Ancora più riprovevole è stato durante l’estate, l’uso politico della pandemia. L’uso corretto del distanziamento e delle mascherine, finalmente disponibili, e la disciplina dimostrata fino ad allora in estate, sortirono i loro frutti. L’epidemia sembrò scomparire. Ma sorsero le critiche strumentali volte a dimostrare che la “cosiddetta pandemia” era stata poco più di una influenza, che le mascherine erano ormai inutili come il distanziamento, che l’emergenza era finita, che il Governo si era assunto poteri incostituzionali (povero articolo 16 della Costituzione che disciplina la libertà di circolazione). La protesta fu cavalcata dalla destra, supportata anche da “autorevoli pareri” giuridici (Sabino Cassese)  sull’inutilità dello “stato di emergenza”  e medici (Alberto Zangrillo) sulla “morte clinica” del virus.

Visto che critiche venivano da così alte persone, i movimenti no-vax, ripresero vigore con manifestazioni di piazza dove rivendicavano il loro diritto ad affermare le cose più strampalate, comunque con il denominatore comune dell’inesistenza del virus, ora propalato ad arte per inoculare i microchip di Bill Gates, ora per montare le antenne 5G che ci avrebbero ridotti a zombie. Ed il pericolo dei no-vax è ancor oggi tale che l’Istituto Superiore di Sanità ha sentito il dovere di pubblicare un lungo elenco di FAQ per smentire le loro castronerie e sta pensando di introdurre l’obbligatorietà del vaccino per i dipendenti pubblici.

Le manifestazioni della destra quelle dei no-vax, insieme alla “pazza estate” fatta di discoteche, selfie, abbandono delle protezioni, assembramenti e pazza gioia, prima pian piano, poi sempre più velocemente ha fatto rialzare il numero dei contagiati e dei morti.

Così la cosiddetta “seconda ondata” è stata accompagnata da un forte contrasto antigovernativo. Il Governo è apparso molto più titubante di fronte alle pretese delle Regioni. Ogni provvedimento restrittivo ha dovuto essere contrattato con ogni singola Regione che teneva il punto sulla contrarietà a nuove chiusure, principalmente per motivo di consenso elettorale, salvo, poi, a chiedere al Governo di agire, lasciando a quest’ultimo il lavoro sporco e impopolare. E così il Governo Conte ha subito un drastico calo della popolarità e appare, ora, alla mercè di un partitino al 2% dei consensi che ambisce alla massima visibilità e chiede qualche poltrona in più per mantenere la fiducia all’esecutivo che ad agosto dell’anno scorso contribuì a creare.

Se non fosse per il momento tragico che stiamo attraversando, il solito teatrino della politica italiana non ci dovrebbe stupire: tante volte abbiamo visto queste manfrine.

Ma la turbanza del Governo, la sua mancanza di decisione è stata talvolta criticata in riferimento alle cosiddette democrazie illiberali (o democrature) come quelle della Turchia, della Korea del Sud, di Singapore e anche di Ungheria e Polonia, per non parlare della Cina. Si è detto che esse avevano sconfitto il virus perché c’è un solo organo che comanda e, nell’emergenza, non si era fatto problema di comprimere (ancora di più) i diritti fondamentali della popolazione.

Mettiamo a confronto i grafici tratti da un autorevole sito web dei Paesi cosiddetti illiberali e le democrazie occidentali europee

democrazie illiberali

democrazie mature

Come si vede dalla curva dei nuovi casi (per milione di abitanti), fra democrazie illiberali e democrazie europee la differenza è solamente geografica. Oggi le europee, democrazie o democrature sono tutte sui 200 casi per milione. Molto più giù le asiatiche. Che il miglior risultato possa dipendere dalla manipolazione dei dati, da propaganda o dalla posizione geografica è possibile, ma nulla è dimostrato.

È invece abbastanza assodato che la voglia di democrazia illiberale stia crescendo, e anche prima della pandemia. La tentazione di affidare – una volta eletto – tutte le preoccupazioni e le decisioni ad un uomo solo è affascinante, specialmente nelle classi meno istruite e con meno memoria storica, dopo l’infelice balletto di competenze fra Regioni e Governo centrale, derivante dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione del 1999, che ha paralizzato decisioni che, invece, andavano prese con rapidità

Gran voce alle spinte verso una democratura ha dato, almeno in Italia, un fatto che con la democratura c’entra poco, la Brexit.

L’uscita del Regno unito dall’Unione europea è sempre stata salutata con favore dalla nostra destra “euroscettica” che all’Unione imputa solo l’imposizione delle misure di stabilità e sorvola sugli enormi benefici del Mercato unico e dell’Euro che mantiene a galla la nostra moneta comune nonostante l’enorme debito pubblico accumulato. La Destra ha sempre sostenuto la necessità di imitare i britannici per ottenere un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Euro e/o dall’Unione europea per poter attuare la cosiddetta svalutazione competitiva in cui gli imprenditori si arricchiscono e il reddito fisso piange (ricordate i primi anni ’80 in cui l’inflazione raggiunse quasi il 20%. Nel 1991 ottenni un mutuo per comprare la prima casa e fui contento di ottenere un tasso di interesse dell’11%, lontanissimo da quello attuale dell’1% garantito dal “cappello” dell’Unione europea.) Peccato che la Destra sorvoli sia sulla richiesta della Scozia di referendum per il distacco dal Regno Unito e per il successivo ingresso nell’Unione europea sia sul comportamento deli amati Governi Ungherese e Polacco che – a parole – sono super euroscettici, ma non pensano neppure ad uscirne perché perderebbero i sostanziosi contributi e vantaggi che l’Unione europea assicura.

Ma torniamo a quello che quest’anno è accaduto: il divorzio fra Regno Unito e Unione europea si è formalizzato, escludendo, in extremis, il pericoloso no-deal. Ma perché il Regno unito ha voluto fortemente tale divorzio fin dal referendum del 2016? In effetti – secondo molti analisti – la decisione non poggia su solide basi oggettive, quanto sull’orgoglio e sul nazionalismo pompati dal partito conservatore per mantenere il potere. Anche la tanto decantata “Questione della pesca” con i pescherecci che sventolavano la Union Jack sul Tamigi lamentando una “sleale concorrenza” da parte di pescherecci dei Paesi UE, oggettivamente non è rilevante visto che l’apporto della pesca nel bilancio dell’Regno Unito è inferiore al 2%. Probabilmente la decisione poggia sulla mancanza di competitività del Regno Unito. Facile prevedere un suo ulteriore declino economico e politico, specialmente con l’inevitabilmente prossima uscita di scena della Regina Elisabetta II. Le spinte centrifughe di Scozia e Irlanda del Nord diventeranno inarrestabili con il distacco di questi due Paesi dal Regno unito ed il loro ritorno in seno all’UE. A meno che il progetto dei Tories non sia quello di trasformare quello che rimane del Regno Unito in un paradiso fiscale, sul modello Montecarlo o Bahamas, non si prevede un futuro roseo per Inghilterra e Galles.

Siamo ormai alla fine di questo 2020 e anche le feste di Natale sono diventate oggetto di polemica. Le misure, faticosamente contrattate dal Governo con le Regioni, che hanno diviso l’Italia in fasce colorate di rosso, arancione e giallo, non hanno sortito gli effetti sperati. Una flessione della curva dei contagi e del rapporto tamponi/positivi si è avuta solo nelle regioni colorate in rosso. In quelle arancioni e gialle no: troppo blando il distanziamento, dovuto alla necessità di non penalizzare troppo l’economia.

Approfittando della chiusura dei negozi e aziende nel lungo filotto di festività natalizie e fine d’anno, il Governo ha reintrodotto un blando lockdown totale e quasi totale, ma con eccezioni molto molto vistose, come la pantomima delle visite, con autocertificazione, di non più di due persone, una sola volta al giorno, a parenti o amici, con impossibilità di un reale controllo. Vedremo attorno al 15 gennaio se queste blande misure hanno sortito qualche effetto. Per ora la curva è in salita.

Ma il nostro atteggiamento è cambiato. Non più disciplinati e attenti, ma scettici e pronti a condurre una vita normale, vista la scarsa probabilità di incorrere in un controllo e di essere sanzionati. (969 sanzioni su 64.119 controlli nel giorno di Santo Stefano appaiono pochini, almeno a vedere la quantità di gente per le strade).

Eppure anche queste blande misure sono state oggetto di critiche da parte dell’opposizione “Non togliamo il Natale ai bambini!” tuona il leader della Lega mentre negli ospedali muoiono ogni giorno più di 800 persone e la curva dei contagi si impenna. La cosa preoccupante è che, ormai, forse stressati da questi dieci mesi di pandemia siamo portati a credere (voglia di democratura?) a chi urla di più e a chi sostiene – a parole i nostri desideri di una vita normale, dimenticando che, fino al termine della vaccinazione, l’unico rimedio è quello conosciuto fin dai tempi di Boccaccio e del Decamerone: distanziamento e mascherina.

Eppure, io lo ricordo benissimo, quante volte abbiamo pensato di voler evitare i cosiddetti “doveri delle feste”: regali, shopping, pranzi con 20 persone, veglioni etc etc; per una volta ne abbiamo l’opportunità. Sfruttiamola, facciamo esperienza, Abbiamo avuto altri Natali, avremo altri Natali.

E la speranza di una vita normale ora c’è: da ieri è iniziata la campagna vaccinale. E’ stata, oltre al Recovery Fund, una vittoria dell’Unione europea (anche se l’euroscettica Ungheria si è rivolta alla Russia e la Germania ha bypassato l’UE per una ulteriore fornitura – furi sacco – di vaccini con la tedesca BionTech. Gli ingenti fondi stanziati per la ricerca hanno dato i loro frutti. Le fasi della ricerca sono state ripetute in contemporanea e non in sequenza da diverse industri farmaceutiche e, in 10 mesi, il vaccino è arrivato. Sono insorti, però, i no-vax “il vaccino non è sicuro”, “non è possibile ottenere un vaccino in così poco tempo”, “dentro ci sono i microchip di Bill Gates” urlano i laureati all’università di Facebook. Perché accade questo fenomeno? Perché, come disse Umberto EcoI social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, quelle che erano, una volta, chiacchiere da bar, diventano pensiero dominante? Probabilmente per una voglia di essere “diversi”, di “stare sotto i riflettori”. Se si conduce una vita scialba, aderire ad una teoria diversa dal pensiero comune ti diversifica, ti fa partecipe di un segreto e di una verità diversa e, come succede agli adepti delle sette, ti fa sentire partecipe di una comunità “superiore” e questa sensazione diventa virale e appetibile.

Certo la politica non aiuta. L’opposizione, in difficoltà con le sue idee anti europee dopo la concessione di 205 miliardi di euro all’Italia per il Recovery Fund, la sospensione del “patto di stabilità” e l’arrivo dei vaccini comprati e gestiti dall’Unione, soffia ancor di più sulle idee care ai no vax. Il leader della Lega, non più di 20 giorni fa, sosteneva che si vaccinerà solo se il “vaccino è sicuro”, sottintendendo che esso potrebbe essere “non sicuro” e giocando sulla distinzione “non sicuro” (porta conseguenze negative indesiderate) e “non efficace” (non fa male, ma non protegge dal virus). Questo dà voce ai no vax e le prime avvisaglie si avvertono fra il personale delle RSA che, pare non si voglia vaccinare in percentuale rilevante. Forse si tratta solo di voler “alzare l’asticella” per ottenere benefici economici, forse di una errata convinzione, vedremo.

La vera causa di tutti questi problemi e dell’insofferenza alle limitazioni – secondo me – è la mancanza del ricordo o dell’abitudine alle privazioni. Ormai la stragrande maggioranza della popolazione italiana è cresciuta nel benessere. Quante volte abbiamo detto “La nostra generazione è la prima a non aver sopportato una guerra!” Se la memoria arriva indietro fino ai 6/7 anni di età, chi ha memoria della guerra ha oggi quasi 90 anni. La guerra, i lutti, l’olocausto, le privazioni, i rifugi antiaerei, la sensazione forte della precarietà della sopravvivenza sono solo ricordi di racconti dei genitori ormai quasi tutti deceduti. Non è da poco il generale atteggiamento iperprotettivo che i boomers hanno avuto con i loro figli.

Da qui il folle pensiero che esista un diritto inalienabile all’aperitivo o alla movida, il folle disinteresse per chi, non più giovane, potesse esser contagiato dagli assembramenti dei giovani fortunatamente indenni dal contagio, gli 800 morti giornalieri.

Forse dobbiamo ripensare ai metodi educativi italiani.

Ma la concezione dell’anno, come periodo di tempo definito è una convenzione umana basata sull’orbita della Terra intorno al Sole, ma i criteri potrebbero essere diversi. Il continuum temporale non si infrange nella notte del 31 dicembre mostrando una soluzione di continuità.

Tanti fatti, tante riflessioni sorte nel 2020 troveranno soluzione o sviluppo nel 2021; potranno essere smentite o confermate.

Il Covid-19 sparirà? La vaccinazione avrà buon fine? Il Governo Conte cadrà per opera di Renzi o per sé stesso? Il Regno unito proseguirà la sua crisi? Salvini continuerà a fare figuracce e a macinare consensi?

Posso rispondere solo con le parole di un nostro poeta:

“Venditore.  Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Passeggere. Almanacchi per l’anno nuovo?

Venditore. Si signore.

Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

Venditore. Oh illustrissimo si, certo.

Passeggere. Come quest’anno passato?

Venditore. Più più assai.

Passeggere. Come quello di là?

Venditore. Più più, illustrissimo.

Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore. Io? non saprei.

Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore. No in verità, illustrissimo.

Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore. Cotesto si sa.

Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Venditore. Cotesto non vorrei.

Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

Venditore. Lo credo cotesto.

Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

Venditore. Signor no davvero, non tornerei.

Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?

Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

Venditore. Appunto.

Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

Venditore. Speriamo.

Passeggere. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

Passeggere. Ecco trenta soldi.

Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.”

In questa ultima parte, dopo la storia del numero dei parlamentari nella Costituzione, delle ragioni addotte (e smentite) dai promotori sull’asserito risparmio, e del presunto troppo elevato numero di parlamentari italiani rispetto agli altri Paesi descritti nei post precedenti, cercherò di spiegare i “guasti nascosti” che la riduzione dei parlamentari porterebbe al sistema costituzionale italiano.

Il primo problema che la riforma proposta porta al sistema è l’aumento del deficit di rappresentatività. Se in Italia gli elettori alla data del referendum sono 51.559.898 (fonte Viminale) significa che ora c’è un deputato per ogni 81.000 elettori e un senatore per ogni 163.000 elettori. Se dovesse vincere il Sì ci sarà un deputato per ogni 128.000 elettore e un senatore per ogni 257.000 elettori. Questo è un dato di fatto. La nostra è una democrazia rappresentativa che si rispecchia nel Parlamento e, con la possibile vittoria del SI’, il Parlamento sarebbe molto meno rappresentativo del corpo elettorale. Tenete a mente questi numeri perché ci torneremo.

Molti studi hanno dimostrato che non cambiando il sistema elettorale (infatti il referendum cambia solo il numero dei parlamentari) ci sarebbero molte distorsioni all’interno delle circoscrizioni e dei collegi con regioni che eleggeranno un numero di parlamentari, in rapporto all’elettorato, inferiore a quello eletto in altre regioni. Per farla facile, ci sarebbero regioni che conteranno più di altre regioni. Bisognerebbe correggere subito questa distorsione: non è possibile che lo stesso numero di elettori di una regione elegga un minor numero di rappresentanti. Non entro nel merito di questi tecnicismi, pur importanti, ma voglio evidenziare un altro aspetto, secondo me, molto più grave.

In Italia, in pratica, non c’è un sistema elettorale o, meglio, cambia ad ogni consultazione: Mattarellum, porcellum, rosatellum ed, ora, un innominato sistema proporzionale con sbarramento che, comunque, stenta a vedere la luce e giace, come proposta indefinita presso le Commissioni parlamentari.

Tutti questi sistemi elettorali hanno un punto in comune e neppure quello in gestazione se ne differenzia: le liste sono bloccate, ossia l’elettore deve supinamente votare la scheda che gli sottopone il partito, non può scegliere il candidato che verrà eletto a seconda dei voti ricevuti dal partito in ragione del posto in lista ricevuto sempre dal partito. In pratica noi votiamo il partito e, in seconda battuta, i candidati scelti dai Segretari dei partiti. Per questo si dice che, da noi, i parlamentari sono nominati e non scelti dall’elettorato. Quindi, non solo i candidati vengono scelti dai partiti, ma anche le chances di elezione sono determinate dal posto in lista e non dalle preferenze ricevute. Quindi la diminuzione dei parlamentari non è affatto una garanzia di avere un Parlamento formato da Deputati e Senatori più competenti e seri.

Non ti riconosci nella lista: fattene una tu, vien detto. Pare facile, ma già ora, per diventare deputato, bisogna farsi conoscere da 81.000 elettori. Se dovesse vincere il SI’, per essere eletti bisognerebbe farsi conoscere da 128.000 elettori. Sempre più difficile, quasi impossibile, senza il contributo della macchina organizzativa del partito.

Ma non è finita. C’è un altro aspetto, forse ancora più grave. Una volta eletti – ora – i parlamentari sono “ostaggi” dei partiti, non avendo – come abbiamo visto – alcuna possibilità di farsi eleggere senza l’aiuto di questi ultimi. Il ricatto l’abbiamo visto più volte: il Segretario di partito dice al deputato: “o voti come ti dico o non ti ricandido”. Su 630 deputati e 315 senatori abbiamo assistito talvolta a fiere ribellioni di parlamentari che anteponevano la loro coscienza alla disciplina di partito. Su 400 deputati e 200 senatori tale possibilità sarà molto, molto più difficile: i ribelli saranno emarginati, non avranno la possibilità di costituire gruppi autonomi  (i Regolamenti di Camera e Senato non sono oggetto del Referendum) e saranno “dimenticati” alle successive elezioni.

Aumenterà a dismisura il potere delle Segreterie dei partiti. Un piccolo manipolo di potenti, senza problemi, potrà governare una Assemblea ridotta di numeri e, quindi, di potere.

Dalla democrazia rappresentativa passeremo ad una oligarchia di Segretari di partito di cui il Parlamento sarà solo il coro. E i “paletti”, le riforme di contorno promesse, la riforma dei Regolamenti parlamentari, la riforma elettorale? Boh, forse, dico forse, ci penseranno. Dopo. Chissà. Forse…

Senza contare che, in assenza di riforme concorrenti, il peso dei delegati regionali per l’elezione del Presidente della Repubblica (tre per regione) aumenta di molto rispetto a quello dei Parlamentari “ridotto” dalla legge tagliaparlamentari in aperto spregio al “peso” voluto dall’articolo 83 della Costitzione.

E questi sono pericoli che non voglio correre.

Alla fine di questa disamina, abbiamo visto:

  • che il numero dei Parlamentari, più o meno, è sempre quello fissato dai Padri costituenti,
  • che il risparmio può essere assimilato ad ogni legislatura ad una tazza di caffè per ogni italiano (salvo che per la prima, dove il risparmio se lo è già mangiato il costo del Referendum),
  • che il taglio lineare dei parlamentari non produce, di per sé una maggiore efficienza del Parlamento, le cui cause sono da ricercarsi altrove e che, anzi, il taglio dei parlamentari potrebbe accentuare le disfunzioni;
  • che il numero dei parlamentari è in linea con le democrazie più simili alla nostra in Europa e nel mondo
  • che la riduzione dei parlamentari potrebbe produrre gravissime disfunzioni alla rappresentatività dell’elettorato, delle Regioni e produrrebbe sicuramente un amento del peso dei Delegati regionali rispetto al Parlamento nell’elezione del Presidente della Repubblica.

E, allora, perché dovremmo votare Sì? Solo per compiacere un partito che sta scomparendo, fa queste battaglie contro la casta solo per sentirsi vivo, solo per riempire qualche minuto dei telegiornali?

Avete visto in questi ultimi giorni che gli altri partiti si disinteressano molto del problema, non perché sia un problema poco interessante o poco importante, ma non possono dire “votate NO” così, dopo che, per calcoli politici assolutamente differenti nelle 4 votazioni al disegno di legge costituzionale hanno votato prima no o poi sì o prima Sì e poi No.

Spero che il corpo elettorale, come sempre succede, si riveli più intelligente dei politici che li governano.

Dopo il racconto del numero dei parlamentari nella Costituzione, delle ragioni addotte (e smentite) dai promotori sull’asserito risparmio, descritti nei post precedenti, in questa terza parte vorrei smontare le motivazioni dei Cinquestelle sull’assunto che, così “l’Italia potrà allinearsi agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti molto più limitati”.

Ossia, dicono i promotori del Referendum, l’Italia ha un numero di Parlamentari spropositato sia rispetto alla popolazione, sia rispetto ai Parlamenti degli altri Stati europei ed extraeuropei.

Sull’elevato numero interno dei Parlamentari si può ribattere che tale numero, nonostante la riforma del 1963, e nonostante la crescita della popolazione di oltre 14 milioni di persone dal 1947, è rimasto sostanzialmente invariato dai tempi della formazione della Carta Costituzionale ed è, quindi, diminuito il rapporto popolazione/rappresentanti. Ma i promotori del referendum sostengono anche che l’Italia ha un numero di parlamentari molto superiore a quello di altri Paesi.

Innanzitutto non si possono sommare mele e fichi. Il numero dei parlamentari dipende, infatti dalla forma costituzionale che il singolo Paese si è dato. Se è uno Stato centralista, se il governo è decentrato, se è un Paese federale etc.etc. Quindi, per ogni confronto, è necessario un considerevole numero di distinguo e precisazioni.

La balla più grossa che ho sentito è il confronto con gli Stati Uniti d’America che, a fronte di oltre 328 milioni di abitanti avrebbero una Camera dei rappresentanti composta da soli 435 membri e un Senato composto da soli 100 membri. Sostenere questa bufala è colpevole perché significa ignorare che Camera e Senato negli USA sono solo gli organi “federali” del Paese. I cittadini americani, quando parlano o pensano allo Stato, non pensano allo Stato federale, bensì pensano ad uno dei 50 Stati che compongono la Federazione.

E ogni Stato nazionale USA ha il suo Parlamento, con competenze molto maggiori delle nostre Assemblee regionali, E ogni Stato , a sua volta, è diviso in Contee, ognuna con la sua Assemblea, e le Contee , a loro volta sono divise in Comuni, ognuno con i proprio consiglio (Vedi più compiutamente a questo link). E ogni assemblea, statale, di Contea o comunale, può imporre tasse proprie. Il fatto è che noi europei, quando guardiamo agli Stati Uniti tendiamo a guardare solo al Governo federale che, è quello che meno interessa agli americani perché ha solo competenze che riguardano la generalità dei 50 Stati (poche) e questioni di difesa o politica estera (quelle che hanno più appeal per noi europei). Potrei dire che il cittadino americano, fra comuni, contee, Stato nazionale e Stato Federale, è quello che ha più rappresentanti di tutti, esattamente il contrario di chi propaga la fake news di una più ridotta rappresentanza.

In Francia (popolazione circa 67 milioni) L’Assemblea Nazionale, (eletta per 5 anni) è formata da 577 membri noti col nome di Deputati, eletti in un collegio elettorale uninominale a doppio turno. Il Senato francese, eletto a suffragio indiretto da circa 150.000 grandi elettori (sindaci, consiglieri comunali, delegati dei consigli comunali, consiglieri regionali e deputati) dura in carica sei anni ed è composto da 346 senatori.

In Germania (popolazione 83,2 milioni) la Camera de Deputati (Bundestag) è attualmente composta da 709 membri (il numero totale è variabile per uno specifico sistema elettorale in cui si vota disgiuntamente il candidato e il partito) e dura in carica quattro anni.  Il Senato (Bundesrat) è composto di soli 69 membri ed è  l’organo attraverso il quale i Länder partecipano al potere legislativo e all’amministrazione dello Stato federale  e si occupano di questioni relative all’Unione europea. Qui si nota una profonda differenza con il nostro Senato. Il Senato tedesco non è una Camera paritaria con il Bundestag, bensì rappresenta, con vincolo di mandato, la volontà dei vari Lander, perché la Germania è uno stato federale. Ogni Land ha poi il suo parlamento nazionale per un totale nazionale di ben 1821 membri.

In Spagna (popolazione quasi 47 milioni), i Parlamento (Le Cortes Generales) sono composte da Camera (350 deputati) e Senato (266 senatori) e durano in carica quattro anni.

Il Governo locale, in Spagna non è uniforme, Si va da “Regioni” che possono essere assimilate a quelle italiane a veri e propri Stati che rivendicano la loro indipendenza come la Catalogna, (vedi questo link) dotata di un vero e proprio Parlamento locale e che acquisisce competenze di rango superiore, derivanti da accordi con il Governo centrale. Alla larga, si può pensare a quello che succede da noi con la Provincia autonoma di Bolzano.

In Gran Bretagna la Camera dei comuni (organo legislativo) è composto da 650 membri. il numero dei membri della Camera dei Lord non è fisso; ad agosto 2019 era composta da 772 eligible members (membri idonei, che possono partecipare alle sedute). Dei membri idonei, 659 sono membri a vita (il cui titolo non passerà ai figli), 87 sono membri ereditari e 26 Lord spirituali. La Camera dei Lord non ha potere legislativo, ma consultivo. Bisogna, però, considerare che nel Regno unito (praticamente Stato federale) esiste anche il Parlamento della Scozia (129 membri), del Galles (60 membri) e dell’Irlanda del Nord (90 membri) che compensano la mancanza dei ”senatori” con potestà legislativa.

E abbiamo quindi sfatato la fake news che voleva che l’Italia avesse un numero di parlamentari spropositato rispetto agli altri Paesi. Anzi, se al Referendum dovesse vincere il sì, l’Italia sarebbe all’ultimo posto come numero di parlamentari fra le nazioni simili.

Continua….domani

Se nella prima parte abbiamo fatto un po’ di storia sul numero dei parlamentari e sulle supposte ragioni addotte dai promotori della legge, in questa seconda parte cerco di smontare alcune delle motivazioni poste dai Cinquestelle a fondamento della loro proposta [risparmio ed efficienza]. La motivazione principale è il risparmio delle Casse dello Stato dovuto alla minore spesa per lo stipendio dei parlamentari “tagliati”.

I Cinquestelle hanno stimato il risparmio per lo Stato di oltre 500 milioni di euro. Tale risparmio è stato più volte smentito, in quanto calcolato su una intera legislatura di cinque anni e al lordo delle tasse [se diminuisci una massa stipendiale, riduci anche l’introito IRPEF da questa generato].

Calcoli univoci, vedi WallStreet Italia a questo link, stimano un risparmio netto di 57 milioni l’anno, che ad un singolo sembrano tanti, ma costituiscono appena lo 0,007% della spesa annua dello Stato. Anche sull’intera legislatura, al netto delle tasse [solo così è possibile considerare il risparmio reale], la diminuzione di spesa arriva sì e no a 285 milioni, poco più della metà di quello [500 milioni] reclamizzato dai Cinquestelle che calcolano il risparmio sul lordo degli stipendi, non considerando che diminuendo gli stipendi diminuisce anche il gettito IRPEF.

Se si tiene conto che il costo del Referendum che andremo ad affrontare, fra spese vive e compensi aggiuntivi ai componenti delle circa 63.000 sezioni elettorali, ammonta a circa 300 milioni di euro, ecco che ci siamo giocati il risparmio di una intera legislatura.

Seconda motivazione: aumentare l’efficienza delle Camere. Su questo aspetto il punto interrogativo è grande quanto una casa: meno parlamentari rendono il Parlamento più efficiente?

Qui un po’ vi dovete fidare. Chi mi conosce sa che, come tecnico di Ufficio legislativo, ho passato venti anni della mia carriera professionale nel Senato e nella Camera di cui – ormai – conosco anche i più reconditi meccanismi.

Il problema principale del Parlamento non è il numero dei suoi membri, bensì le regole che si è dato, i famosi Regolamenti, che hanno rango di leggi costituzionali.

Il Regolamento della Camera è a questo link.

Il Regolamento del Senato è a questo link.

Il principale problema, mai affrontato, che genera confusione e ritardi, è quello della convivenza fra Commissioni, il cui calendario è deciso dal Presidente della stessa e l’Aula, il cui calendario è deciso, all’unanimità, dalla Conferenza di Capigruppo.

Chiunque abbia studiato un po’ di “educazione civica” sa bene che una legge, per essere approvata, deve passare il vaglio di ben quattro letture, Commissioni [merito e pareri] e Aula della Camera e Commissioni [merito e pareri] e Aula del Senato. Il lavoro delle Commissioni è importantissimo: è lì che la materia viene sbozzata e preparata per la votazione dell’Aula, ma il lavoro delle Commissioni spesso è interrotto dai lavori dell’Aula che chiama a raccolta i Parlamentari per il voto. Non escludo, non ho fatto i calcoli, che con la riduzione del numero dei parlamentari sarà impossibile – per carenza di numero legale – il lavoro contemporaneo di Aula e Commissioni con il risultato di un blocco totale del Parlamento.

Spesso, lo avete letto sui giornali, il testo di una legge viene chiamato dall’Aula, quando non è ancora finito il lavoro delle Commissioni per esser completamente rimpiazzato da un maxi emendamento sostitutivo su cui il Governo pone la fiducia.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: leggi incomprensibili composte di un solo articolo e di centinaia di commi, illeggibili, per nulla chiare e suscettibili di interpretazioni varie, come – ad esempio – la legge di bilancio 2019,  (LEGGE 30 dicembre 2018, n. 145 Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021. (GU n.302 del 31-12-2018 – Suppl. Ordinario n. 62 )   approvata dal Parlamento senza passare per le Commissioni. Ci capite qualcosa?  Vi sfido.

Questi problemi anzidetti, non verranno certo diminuiti o eliminati dal taglio netto dei parlamentari, ma verranno senz’altro amplificati per mancanza “di forza lavoro”.

Senza eliminare una parte dei Parlamentari, un miglior risultato poteva essere ottenuto approntando il lavoro del Parlamento – come si fa in tante altre parti del mondo, compreso il Parlamento europeo – per “sessioni”: per tre settimane lavorano solo le commissioni che, nella quarta settimana, riversano il loro lavoro, pronto e pulito, al vaglio dell’Aula.

Con la riforma di un taglio netto dei parlamentari non si risolverà, poi, alcuno dei problemi che affliggono il nostro Parlamento come l’ostruzionismo, la presentazione di migliaia di emendamenti da parte di un solo parlamentare [ricordate Calderoli e la sua macchina “produciemendamenti”?]. Non si risolverà la transumanza dei parlamentari da un Gruppo all’altro. Gli uffici di supporto ai gruppi parlamentari, pagati con le nostre tasse, rimarranno uguali a quelli di adesso, non essendo – per loro – previsto nulla nel referendum.

Il costo della macchina “Parlamento” rimarrà praticamente uguale.

I Parlamentari, che siano 600+315 o 400+200, potranno comunque essere assenteisti o stakanovisti, bravi o mezze calzette, animati da buoni propositi o solo dall’attaccamento alle poltrone. Questo taglio non incide assolutamente sulla qualità dei parlamentari.

Prima di tagliare i Parlamentari, si riformino i regolamenti, per esempio tornando al disposto costituzionale dell’art. 72 che dispone che i disegni di legge siano approvati “per articoli” e non per commi o sottocommi, o parole immesse nei testi.

Infine, c’è qualcuno, anche quotidiani nazionali, che affermano che il Parlamento abbia troppi parlamentari perché ora ci sono le Regioni e il Parlamento europeo. Veramente le Regioni e le assemblee regionali erano state previste anche dalla Costituzione del 1947 ed anche la loro potestà legislativa, basta guardare gli originali articoli 117 e 118 (poi modificati nel 2001). Ritenere che il Parlamento europeo sia in competizione e contrasto con i Parlamenti nazionali significa non conoscere che Il trattato di Lisbona ha definito per la prima volta il ruolo dei parlamenti nazionali in seno all’Unione europea. I parlamenti nazionali, ad esempio, possono esaminare i progetti di legge dell’UE per controllare se rispettano il principio di sussidiarietà, possono partecipare alla revisione dei trattati dell’UE, oppure possono prendere parte alla valutazione delle politiche dell’UE in materia di libertà, sicurezza e giustizia. Il trattato di Lisbona ha inoltre specificato che il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali dovrebbero definire insieme l’organizzazione e la promozione di una cooperazione interparlamentare efficace e regolare in seno all’Unione europea.

Di conseguenza, il Parlamento europeo ha adottato nel 2009 (vedi link qui) e 2014 (vedi link qui) risoluzioni che trattano specificamente dello sviluppo delle relazioni tra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali.

Continua…..domani….

Il 20 e 21 settembre saremo chiamati ad esprimerci su un referendum confermativo di una legge costituzionale i cui scopo è molto limitato: tagliare il numero dei parlamentari. I Deputati scenderebbero da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. La legge costituzionale è stata approvata nelle prescritte quattro letture e, siccome non ha sempre raggiunto la percentuale di sì dei due terzi di una delle Camere, la Costituzione permette, con la richiesta di alcune modalità, che il popolo abbia l’ultima parola in un referendum senza quorum. Per intenderci, se andasse a votare una sola persona e quella persona votasse NO, la legge non sarebbe approvata.

Chi mi segue sa perfettamente che io non sono favorevole a questa riforma; spesso su questo blog ho spiegato le ragioni e richiamato l’attenzione. Visto che la data si avvicina e questa data, in caso di vittoria dei sì, potrebbe essere foriera di inconvenienti seri sul funzionamento del Parlamento, proprio in direzione contraria degli auspici dichiarati dai promotori (i Cinquestelle), forse è meglio tornare sull’argomento.

Facciamo un po’ di storia.

Forse non tutti sanno che il numero attuale di parlamentari non fu fissato dalla Costituzione del 1947 (qui il link)

La costituzione originaria, agli articoli 56 e 57 affermava che “La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale, in ragione di un deputato ogni 80.000 abitanti o frazione superiore a 40.000” e che “il Senato della Repubblica è eletto a base regionale. A ciascuna regione è attribuito un senatore per 200.000 abitanti. Nessuna regione può avere meno di sei senatori. La Valle d’Aosta ne ha uno”.

L’articolo 60 introduceva uno sfasamento temporale sulla durata delle Camere. La Camera di deputati era eletta per cinque anni, il Senato per sei.

Facile fare il conto di quanti deputati fosse composta la prima Camera, visto che la popolazione italiana nel 1947 era di 45.910.000 persone: 45.910.000/80.000 = 574 membri (numero non dissimile dall’attuale). Più complicato fare il computo dei senatori perché bisognerebbe conoscere la popolazione di ogni regione nel 1947 e considerare le modifiche territoriali intervenute (Molise che si divide dagli Abruzzi, Trieste che ritorna nel territorio italiano).

Ci viene in soccorso il “Sito storico del Senato” che a questo link ci dice che i senatori, nella prima legislatura erano 369 (con sole 4 donne!!), numero non dissimile dall’attuale.

Poi, nel 1963, con legge costituzionale 9 febbraio 1963, n.2, il numero dei deputati fu fissato negli attuali 630 e i senatori negli attuali 315. Nel 2001 furono aggiunti i rappresentanti degli italiani all’estero.

Ma veniamo ai giorni nostri e alle ragioni che hanno spinto il partito che voleva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, i Cinquestelle, ad operare in un campo più istituzionale per minarne l’attività.

Non sarebbe giusto non passare in rassegna le ragioni, o le pseudo ragioni poste alla base della proposta di legge.

Il Disegno di legge, (ricordiamoci, presentato il 4 aprile 18, pochi giorni dopo la costituzione del Governo Lega – Cinquestelle) ormai approvato ed in attesa del Referendum, (n. 214 al Senato e n.1585 alla Camera) prevede (a questo link il testo) che il numero dei deputati scenda da 630 a 400 ed il numero dei senatori da 315 a 200.

La motivazione, posta dai presentatori, a base della proposta è la seguente: “Coerentemente con quanto previsto dal programma di governo [Lega-Cinquestelle], si intende pertanto riportare al centro del dibattito parlamentare il tema della riduzione del numero dei parlamentari, con il duplice obiettivo di aumentare l’efficienza e la produttività delle Camere e, al contempo, di razionalizzare la spesa pubblica. In tal modo, inoltre, l’Italia potrà allinearsi agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti molto più limitato.”

Quindi efficienza e riduzione della spesa, ma a scapito della funzione più importante, direi quasi sacra, della rappresentatività del popolo italiano.

Continua…..domani! Continuate a seguirmi, se vi va

 il 20 e 21 settembre prossimo saremo tutti chiamati ad esprimere il nostro voto sul referendum inteso ad operare un taglio lineare ai parlamentari. I Deputati scenderebbero da 630 a 400 e i Senatori da 315 a 200. Fra Coronavirus, contemporanee elezioni regionali e comunali e, soprattutto, l’incertezza dei partiti a prendere posizione, l’argomento è ancora perlopiù confuso. Molti sono i punti oscuri. I partiti, tranne i Cinquestelle, promotori del “taglio” (anche se non era nel loro programma), sono abbastanza ondivaghi secondo le convenienze precedenti; non hanno una posizione definita passando da un NO netto ad un Sì sofferto come il PD oppure da un Sì ad un forse No come Forza Italia. Gli elettori sono abbastanza confusi: la diminuzione de parlamentari è ovvio che comporti un sia pur minimo risparmio. Ma tale risparmio è valido per contrastare i sicuri effetti negativi? E tutti gli altri vantaggi, sbandierati dai promotori, sono reali o sono fake news? Sono un burocrate, avvezzo ai regolamenti del Parlamento, che ho frequentato come tecnico per oltre 20 anni. Ho tentato di metter un po’ in ordine le cose che so e che mi fa piacere condividere con voi. Non pretendo di avere la verità in mano, ho cercato solo di documentarmi e quello che ho imparato mi fa piacere metterlo a disposizione di tutti coloro che avranno la bontà di leggermi e seguirmi.

In quattro post che pubblicherò, a partire da domani, 2 settembre, su Facebook (platea ampia) e sul mio blog https://sergioferraiolo.com, che mi permette, però, una migliore formattazione e l’inserimento – impossibile su FB – degli indispensabili link di approfondimento e spiegazione, cercherò di raccontare se le motivazioni dei promotori del Referendum siano concrete o siano campate in aria, se i grandi vantaggi sbandierati dai promotori siano reali o meno ed, infine, quali saranno, oltre al “taglio”, le conseguenze del Referendum.

Seguitemi, se vi va.

Caro Segretario Zingaretti, il PD – giustamente – nelle prime tre votazioni al Parlamento sulla legge costituzionale “tagliaparlamentari” si espresse con un convinto NO!. Troppe ed evidenti sono le distorsioni che questo taglio lineare senza contrappesi porta all’attività parlamentare a cominciare dall’impossibilità per Aula e Commissioni di funzionare contemporaneamente. Il PD ha ben in testa che altre sono le cause di un non perfetto funzionamento del Parlamento: in primis i Regolamenti parlamentari, difficili da cambiare perché hanno rango di leggi costituzionali, le assurdità della conferenza dei capigruppo che deve decidere all’unanimità etc etc. Purtroppo alla quarta votazione il PD, pur di formare il nuovo Governo ha ceduto alla chimera populista dei Cinquestelle del “fantastico risparmio” (?) e della punizione della Casta e ha votato SI’, circondando, comunque il suo assenso a precise condizioni di riforme legislative che dovevano andare di pari passo, a cominciare da quella elettorale. Ci è andata male. Ci hanno fregato. La legge elettorale è di là da cominciare i primi passi, il resto delle riforme? Missing. A queste condizioni è lecito ritirare, con onore, la parola data e tornare sulle posizioni di prima. Inadimplendi non est adimplendum. Un taglio dei parlamentari non accompagnato da altre riforme è deleterio e pericoloso. Che chi si riconosce nel PD voti NO al referendum
Caro Segretario Zingaretti, non si renda complice di questo attentato alla democrazia, alla rappresentatività, all’autonomia del parlamento che diverrà un manipolo di nominati succubi delle segreterie dei partiti. La prego. Dia una chiara indicazione di votare NO al ReferendumCostituzionale

È vero, spesso i parlamentari sono costretti a votare come vogliono i segretari dei due/tre partiti al Governo.
Poche voci si levano in dissenso facendo capire che i parlamentari hanno anche un cervello oltre che il dito per premere il pulsante di voto.
Se oggi, con 630 deputati e 315 senatori queste voci sono poche, domani, con 400 deputati e 200 senatori le voci in #dissenso dalla #casta dei partiti saranno ancora di meno. Tre segretari di partito controlleranno l’Italia.
Al referendum IO VOTO NO.

Noi spesso ci lamentiamo del basso livello dei nostri politici che, spesso, nelle loro manifestazioni, sfiorano o superano il ridicolo.

I Britannici ci imitano.

Oggi, cioè ieri 19 ottobre, era l’ultimo giorno utile per il Governo inglese per chiedere una proroga della Brexit.

Più chiaramente, un emendamento approvato dal Parlamento britannico imponeva al Governo di evitare la Brexit senza regole, il famoso “No deal” ma, nel caso di mancata approvazione dell’accordo con la Unione Europea di chiedere a questa ultima una ulteriore proroga.

Boris Johnson si è sempre dichiarato contrario a ulteriori proroghe e ha sempre affermato che mai la avrebbe chiesta.

Il Parlamento britannico ieri ha bocciato l’accordo concordato da Johnson ed anche il primo ministro è soggetto alla legge.

E qui appare l’italico Macchiavelli.

Al presidente del Consiglio Europeo è arrivata, da Downing Street una lettera su carta intestata del primo ministro britannico, ma non firmata.

Una seconda lettera, firmata semplicemente “Johnson” ribadiva la contrarietà alla proroga.

Una terza lettera, firmata dall’ambasciatore Britannico presso la UE cercava di spiegare il tutto

Sono state avviate consultazioni fra i partner europei per tentare di comprendere l’accaduto…….

Si fa un gran parlare, in questi giorni di possibile rottura fra gli alleati del Governo che – fra le possibili conseguenze – potrebbe portare ad elezioni anticipate.

Non è così.

Questa legislatura durerà a lungo ma non per calcoli politici degli alleati (per ora) di Governo, né per eventuali governi tecnici.

Durerà molto perché non sarà possibile sciogliere le Camere. No, non sarà proprio possibile.

Perché? Perché a settembre sarà approvata la legge di riforma costituzionale di dimezzamento (o quasi) di deputati e senatori.

Il Disegno di legge A.S. 214 recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” (clicca qui per la scheda Senato), ora Atto Camera 1585-B (clicca qui per la scheda Camera) prevede la riduzione da 630 a 400 dei Deputati e da 315 a 200 dei Senatori.

Tralascio qui il merito della legge che – secondo me – consegnerebbe veramente il Parlamento in mano ai segretari di partito e sul quel ho scritto più volte (clicca qui e qui e qui e qui).

Vediamo le conseguenze tecniche. Il Disegno di legge in parola è un disegno di legge costituzionale che segue la procedura descritta nell’articolo 138 della Costituzione:

  1. “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione [cfr. art. 72 c.4].
  2. 2.       Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare [cfr. art. 87 c.6] quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata [cfr. artt. 73 c.1, 87 c.5 ], se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
  3. 3.       Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

L’11 luglio 2019 il Senato ha approvato in seconda lettura il testo della legge ma non con la maggioranza di due terzi dei propri componenti come descritto nel terzo comma dell’articolo 138 della Costituzione sopracitato.

Quindi anche se la Camera dovesse (pare a settembre) approvare all’unanimità il Disegno di legge, potrebbe scattare quanto disposto dal secondo comma sempre dell’art. 138 della Costituzione.

Se un disegno di legge di revisione costituzionale non è approvato da ciascun ramo del parlamento con la maggioranza dei due terzi, esiste la possibilità di chiedere un referendum abrogativo.

Il Referendum può esser chiesto da Cinque consigli regionali, oppure, da 500.000 elettori oppure da un quinto dei membri di una Camera (ossia 126 deputati o 63 senatori).

Reputo altamente probabile che tale ipotesi si avveri: 500.000 firme son facili da trovare e un buon numero di parlamentari che sa di non poter contare su una rielezione farà di tutto per portare alle lunghe questa legislatura.

La richiesta di referendum bloccherebbe le elezioni anticipate: non perché ciò sia vietato, ma perché non si saprebbe quanti deputati o senatori eleggere.

I tempi sono dettati dalla legge 25 maggio 1970 n. 352,

L’articolo 3 di tale legge dispone che una legge di revisione costituzionale non approvata con la maggioranza dei due terzi non sia promulgata e non entri in vigore, ma:

  1. Qualora l’approvazione sia avvenuta con la maggioranza prevista dal primo comma dell’articolo 138 della Costituzione, il Ministro per la grazia e la giustizia deve provvedere alla immediata pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale con il titolo «Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera», completato dalla data della sua approvazione finale da parte delle Camere e preceduto dall’avvertimento che, entro tre mesi, un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque consigli regionali possono domandare che si proceda al referendum popolare.
  2. La legge di cui al comma precedente è inserita nella Gazzetta Ufficiale a cura del Governo, distintamente dalle altre leggi, senza numero d’ordine e senza formula di promulgazione.

Quindi bisogna aspettare tre mesi per vedere se Regioni, cittadini o parlamentari, nelle dovute forme chiedano il referendum abrogativo.

Se viene chiesto, l’articolo 12 della legge 352/70 dispone che la Corte di Cassazione abbia 30 giorni per decidere se la richiesta sia conforme al disposto dell’art. 138 della Costituzione- Se verifica positivamente la richiesta, l’articolo 15 della legge dispone che il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo abbia ammesso.

La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione.

Ricapitoliamo i tempi.

Facciamo conto che la legge sia definitivamente approvata dalla Camera il 30 settembre 2019. Facciamo conto che la legge sia pubblicata, senza entrare in vigore, in attera di richiesta di referendum il 1° ottobre 2019, i 3 mesi terminano il 1° gennaio 2020. La Cassazione dovrà esprimersi entro il 1° febbraio 2020. Il presidente della Repubblica ha tempo per indire il referendum fino al 1° aprile 2019.

Il referendum si svolgerà fra il 20 maggio e il 10 giugno 2020.

Solo allora sapremo definitivamente quanti sono i Parlamentari della Repubblica.

Solo allora il presidente della Repubblica, se lo riterrà necessario, potrà sciogliere le Camere.

E qui detta legge l’articolo 61 della Costituzione:

  1. “Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni [cfr. art. 87 c. 3].
  2. Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti.”

Fin ora dallo scioglimento alle elezioni è sempre trascorso il massimo del tempo. Se sarà così anche stavolta, le elezioni delle nuove Camere (col numero attuale o ridotto di parlamentari) non potranno tenersi prima del 10 agosto 2020. Data improponibile.

Settembre? No, c’è la legge di bilancio.

Se ne riparlerà forse a primavera 2021.

Il Governo questo lo sa bene: per questo litiga, ma non rompe. Sa benissimo che, se dovesse andare in crisi, dietro l’angolo non ci sarebbero le elezioni anticipate, bensì più di un anno di “Governo tecnico”.

A meno che….. a settembre la legge di riforma costituzionale non venga, bocciata o archiviata per permettere lo scioglimento delle Camere prima della sua approvazione. Con lo scioglimento, il Disegno di legge di riduzione dei parlamentari decadrebbe e non se ne parlerebbe più. Molto meglio.

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