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Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C.

Pericle
Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.

Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. (*)

Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36

(*) Errata corrige: inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all’inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. – 404 a.C.)

Se mi chiedessero di definire l’anno 2020 con una sola parola non avrei dubbi. Non certo per distinguermi dai titoloni di giornali di questi giorni “2020, anno disgraziato” oppure “2020, anno sventurato”, per non dire “di merda”, io ho un’altra parola. Non dimentico certo i 70.000 morti, le centinaia di attività imprenditoriali spazzate via, i nuovi poveri, etc. etc. ma su questi temi sono piene le pagine dei giornali. Non mi va di ripetere concetti sui cui i migliori giornalisti si sono espressi molto meglio di quello che posso scrivere io. Dando per assodato i lutti e le disgrazie che questo 2020 ha portato e che hanno tutta la mia attenzione, il mio sentimento e il mio cordoglio, io definirei il 2020 un “anno interessante”.

Sì, interessante, perché ha portato alla luce molti aspetti nascosti del nostro “io” nascosto, dei nostri comportamenti, dei nostri comportamenti. Cosa ci lascia questo 2020?

Non c’è un punto preciso da dove cominciare. Sono tutti connessi con il pensiero dominate rivolto al Coronavirus che ha dominato, senza rivali, l’intero anno.

Abbiamo cominciato presto, a gennaio, con le cronache che riportano notizie da un paese, la Cina, e da una città, Wuhan, che la maggior parte di noi non aveva mai sentito nominare, anche se ha oltre 8 milioni di abitanti ed è uno delle principali città di quell’ancor misterioso Paese. Ancora “abboffati” dalla fine delle festività di fine 2019 abbiamo appreso che a Wuhan si era sviluppato un virus misterioso, molto potente che uccideva o faceva ammalare molto gravemente i suoi abitanti.

Ma era un Paese lontano e anche il perentorio avvicinarsi della malattia sortì solo un impeto di orgoglio: due turisti cinesi trovati positivi al nuovo virus furono subito scoperti ed isolati a Roma. Ok, trovati ed isolati. Come siamo bravi!!!! Tutto OK, ci permettiamo anche di andare a prendere i nostri connazionali in Cina e riportarli qui, una novella Dunkerque, conclusa con grande successo. Una pietra sopra e non pensiamoci più. Non pensarci più fino alla tragica notizia proveniente da un paesino sconosciuto del Nord, Codogno. Da lì in poi i fatti sono noti e non mi ci dilungo.

Mi soffermo invece sulle conseguenze di questi fatti. Il 7-8 marzo si chiude la Lombardia. Il 9 marzo il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte firma il primo provvedimento di chiusura generale. Il primo lockdown italiano. Una esperienza unica. Mentre, soprattutto nel Nord, in Lombardia e nel bergamasco, nostri concittadini a centinaia venivano ricoverati o ,peggio, morivano in solitudine, senza una carezza dei parenti, nel resto d’Italia ci siamo trovati chiusi in casa per due mesi. Autorizzati ad uscire solo per necessità di spesa alimentare o salute. Negozi chiusi. Abbiamo sperimentato anche l’autocertificazione, modulo, alle prime un po’ ballerino, dove riportare preventivamente i nostri “necessari” spostamenti.

All’inizio la “novità” fu accolta bene, il sentimento di appartenenza si rafforzò come testimoniano i canti collettivi dai balconi e il gradimento del Governo aumentò di molto.

L’azione del Governo fu decisa, senza (apparenti) titubanze e i cittadini la approvarono. Fu chiaro a tutti che, come ai tempi del Boccaccio e del Decamerone, il distanziamento sociale era l’unica arma contro il virus. Sparirono per oltre un mese mascherine chirurgiche e il flaconcino di Amuchina raggiunse prezzi di affezione. Eppure nel marzo 2020 dimostrammo una inconsueta maturità. Nelle case si rimisero in uso le macchine da cucire, YouTube era pieno di tutorial su come cucire le mascherine partendo da una vecchia federa. Imparammo ad usare metodi di comunicazione alternativi come le video conferenze in Zoom, praticamente sconosciuto prima. Acronimi come DAD divennero familiari e gli insegnanti fecero il miracolo, senza alcuna preparazione specifica e senza preavviso, di mutare il loro rapporto con la classe dalla contiguità fisica all’immaterialità dello schermo, neppure fossimo nel romanzo “il Sole nudo” di Isaac Asimov.

Certo i giornali davano maggiore risalto alla creatività e alla resilienza che alla disperazione di negozianti e ristoratori, da un momento all’altro privati della loro fonte di reddito.

Comunque al sud, almeno per le fasce “garantite” il primo lockdown fu  trascorso senza particolari problemi, soprattutto perché i casi di “positività al virus” erano pochini. Ma, a parte Zoom, mascherine, Amuchina, non uscire di casa, nuovi poveri, cosa ha portato il lockdown? Cosa ci ha fatto scoprire di noi stessi?

Probabilmente due sentimenti contrapposti. Il primo la diffidenza del contatto. Ormai, dopo mesi e mesi se un’altra persona ci viene (troppo) vicino, istintivamente siamo a disagio e ci allontaniamo. Le distanze interpersonali italiane si sono avvicinate a quelle nordiche.

Il secondo è la speculare “mancanza di coccole”. Da quanto tempo non ci salutiamo con un bacio? Con un abbraccio? Con una stretta di mano? È interessante per ognuno di noi capire quanto questi atteggiamenti, una volta spontanei, ci mancano. Mancheranno meno in una famiglia, dove l’affetto è più forte della paura del contagio, mancheranno di più nei single. Ecco, forse una riflessione su quanto questi gesti ci mancano servirebbe.

Abbiamo imparato a comunicare con mezzi nuovi, scelto di usare mezzi diversi per apprendere ed informarci. Internet è stato il protagonista. I fornitori di beni e servizi on-line hanno visto i loro profitti schizzare alle stelle al contrario dei negozi fisici. Molto è cambiato nei servizi di informazione. Fino alla pandemia, i giornali on line erano un invito ad acquistare quelli cartacei: la quasi totalità degli articoli era gratis, quelli a pagamento la minoranza. Oggi la proporzione si è invertita. Giornali come “La Stampa” hanno la quasi totalità degli articoli a pagamento. Le offerte di abbonamento “di prova” per qualche mese a 1 o 2 euro si sono moltiplicate. Ormai per leggere ed informarsi on line bisogna abbonarsi, anche se i prezzi a regime sono molto più alti di quelli da tempo offerti da testate estere, più abituate a questo sistema. Per esempio il New York Times offre da sempre l’intera lettura on line a 2 euro al mese.

Jeff Bezos, il patron di Amazon ha conseguito profitti stratosferici ma, attraverso Amazon Marketplace, molti negozi chiusi hanno potuto appoggiarsi alla più grande piattaforma di vendita on-line. E molti esercenti, impossibilitati a vendere fisicamente, hanno aperto anche un negozio on line. Sul web ormai è possibile comprare anche una pinza venduta dal ferramenta sotto l’angolo.

Non solo beni fisici, ma anche spettacoli, film, concerti. A Netflix si sono affiancate innumerevoli piattaforme ove è possibile guardare, con un prezzo – per ora risibile – film, concerti, spettacoli, comodamente a casa nostra.

La domanda è: quando la pandemia sarà finita, torneremo indietro? O lo streaming continuerà ad affiancare gli spettacoli “in presenza”? Ossia, il teatro, il cinema torneranno ad essere luoghi di incontro, o come per le partite di calcio, la fetta più consistente di introiti verrà tramite la cessione dei diritti TV e/o streaming?

Abbiamo, poi, assistito anche a cose riprovevoli. Appena finito il lockdown stretto è sorto, forse come reazione, il “diritto all’aperitivo” o il “diritto alla movida”. Pur sapendo che negli ospedali i malati morivano come mosche, molti urlavano il proprio diritto a riunirsi, a bere in collettività la mitica bevanda arancione, a passeggiare in gruppo…

Ancora più riprovevole è stato durante l’estate, l’uso politico della pandemia. L’uso corretto del distanziamento e delle mascherine, finalmente disponibili, e la disciplina dimostrata fino ad allora in estate, sortirono i loro frutti. L’epidemia sembrò scomparire. Ma sorsero le critiche strumentali volte a dimostrare che la “cosiddetta pandemia” era stata poco più di una influenza, che le mascherine erano ormai inutili come il distanziamento, che l’emergenza era finita, che il Governo si era assunto poteri incostituzionali (povero articolo 16 della Costituzione che disciplina la libertà di circolazione). La protesta fu cavalcata dalla destra, supportata anche da “autorevoli pareri” giuridici (Sabino Cassese)  sull’inutilità dello “stato di emergenza”  e medici (Alberto Zangrillo) sulla “morte clinica” del virus.

Visto che critiche venivano da così alte persone, i movimenti no-vax, ripresero vigore con manifestazioni di piazza dove rivendicavano il loro diritto ad affermare le cose più strampalate, comunque con il denominatore comune dell’inesistenza del virus, ora propalato ad arte per inoculare i microchip di Bill Gates, ora per montare le antenne 5G che ci avrebbero ridotti a zombie. Ed il pericolo dei no-vax è ancor oggi tale che l’Istituto Superiore di Sanità ha sentito il dovere di pubblicare un lungo elenco di FAQ per smentire le loro castronerie e sta pensando di introdurre l’obbligatorietà del vaccino per i dipendenti pubblici.

Le manifestazioni della destra quelle dei no-vax, insieme alla “pazza estate” fatta di discoteche, selfie, abbandono delle protezioni, assembramenti e pazza gioia, prima pian piano, poi sempre più velocemente ha fatto rialzare il numero dei contagiati e dei morti.

Così la cosiddetta “seconda ondata” è stata accompagnata da un forte contrasto antigovernativo. Il Governo è apparso molto più titubante di fronte alle pretese delle Regioni. Ogni provvedimento restrittivo ha dovuto essere contrattato con ogni singola Regione che teneva il punto sulla contrarietà a nuove chiusure, principalmente per motivo di consenso elettorale, salvo, poi, a chiedere al Governo di agire, lasciando a quest’ultimo il lavoro sporco e impopolare. E così il Governo Conte ha subito un drastico calo della popolarità e appare, ora, alla mercè di un partitino al 2% dei consensi che ambisce alla massima visibilità e chiede qualche poltrona in più per mantenere la fiducia all’esecutivo che ad agosto dell’anno scorso contribuì a creare.

Se non fosse per il momento tragico che stiamo attraversando, il solito teatrino della politica italiana non ci dovrebbe stupire: tante volte abbiamo visto queste manfrine.

Ma la turbanza del Governo, la sua mancanza di decisione è stata talvolta criticata in riferimento alle cosiddette democrazie illiberali (o democrature) come quelle della Turchia, della Korea del Sud, di Singapore e anche di Ungheria e Polonia, per non parlare della Cina. Si è detto che esse avevano sconfitto il virus perché c’è un solo organo che comanda e, nell’emergenza, non si era fatto problema di comprimere (ancora di più) i diritti fondamentali della popolazione.

Mettiamo a confronto i grafici tratti da un autorevole sito web dei Paesi cosiddetti illiberali e le democrazie occidentali europee

democrazie illiberali

democrazie mature

Come si vede dalla curva dei nuovi casi (per milione di abitanti), fra democrazie illiberali e democrazie europee la differenza è solamente geografica. Oggi le europee, democrazie o democrature sono tutte sui 200 casi per milione. Molto più giù le asiatiche. Che il miglior risultato possa dipendere dalla manipolazione dei dati, da propaganda o dalla posizione geografica è possibile, ma nulla è dimostrato.

È invece abbastanza assodato che la voglia di democrazia illiberale stia crescendo, e anche prima della pandemia. La tentazione di affidare – una volta eletto – tutte le preoccupazioni e le decisioni ad un uomo solo è affascinante, specialmente nelle classi meno istruite e con meno memoria storica, dopo l’infelice balletto di competenze fra Regioni e Governo centrale, derivante dall’infausta riforma del Titolo V della Costituzione del 1999, che ha paralizzato decisioni che, invece, andavano prese con rapidità

Gran voce alle spinte verso una democratura ha dato, almeno in Italia, un fatto che con la democratura c’entra poco, la Brexit.

L’uscita del Regno unito dall’Unione europea è sempre stata salutata con favore dalla nostra destra “euroscettica” che all’Unione imputa solo l’imposizione delle misure di stabilità e sorvola sugli enormi benefici del Mercato unico e dell’Euro che mantiene a galla la nostra moneta comune nonostante l’enorme debito pubblico accumulato. La Destra ha sempre sostenuto la necessità di imitare i britannici per ottenere un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Euro e/o dall’Unione europea per poter attuare la cosiddetta svalutazione competitiva in cui gli imprenditori si arricchiscono e il reddito fisso piange (ricordate i primi anni ’80 in cui l’inflazione raggiunse quasi il 20%. Nel 1991 ottenni un mutuo per comprare la prima casa e fui contento di ottenere un tasso di interesse dell’11%, lontanissimo da quello attuale dell’1% garantito dal “cappello” dell’Unione europea.) Peccato che la Destra sorvoli sia sulla richiesta della Scozia di referendum per il distacco dal Regno Unito e per il successivo ingresso nell’Unione europea sia sul comportamento deli amati Governi Ungherese e Polacco che – a parole – sono super euroscettici, ma non pensano neppure ad uscirne perché perderebbero i sostanziosi contributi e vantaggi che l’Unione europea assicura.

Ma torniamo a quello che quest’anno è accaduto: il divorzio fra Regno Unito e Unione europea si è formalizzato, escludendo, in extremis, il pericoloso no-deal. Ma perché il Regno unito ha voluto fortemente tale divorzio fin dal referendum del 2016? In effetti – secondo molti analisti – la decisione non poggia su solide basi oggettive, quanto sull’orgoglio e sul nazionalismo pompati dal partito conservatore per mantenere il potere. Anche la tanto decantata “Questione della pesca” con i pescherecci che sventolavano la Union Jack sul Tamigi lamentando una “sleale concorrenza” da parte di pescherecci dei Paesi UE, oggettivamente non è rilevante visto che l’apporto della pesca nel bilancio dell’Regno Unito è inferiore al 2%. Probabilmente la decisione poggia sulla mancanza di competitività del Regno Unito. Facile prevedere un suo ulteriore declino economico e politico, specialmente con l’inevitabilmente prossima uscita di scena della Regina Elisabetta II. Le spinte centrifughe di Scozia e Irlanda del Nord diventeranno inarrestabili con il distacco di questi due Paesi dal Regno unito ed il loro ritorno in seno all’UE. A meno che il progetto dei Tories non sia quello di trasformare quello che rimane del Regno Unito in un paradiso fiscale, sul modello Montecarlo o Bahamas, non si prevede un futuro roseo per Inghilterra e Galles.

Siamo ormai alla fine di questo 2020 e anche le feste di Natale sono diventate oggetto di polemica. Le misure, faticosamente contrattate dal Governo con le Regioni, che hanno diviso l’Italia in fasce colorate di rosso, arancione e giallo, non hanno sortito gli effetti sperati. Una flessione della curva dei contagi e del rapporto tamponi/positivi si è avuta solo nelle regioni colorate in rosso. In quelle arancioni e gialle no: troppo blando il distanziamento, dovuto alla necessità di non penalizzare troppo l’economia.

Approfittando della chiusura dei negozi e aziende nel lungo filotto di festività natalizie e fine d’anno, il Governo ha reintrodotto un blando lockdown totale e quasi totale, ma con eccezioni molto molto vistose, come la pantomima delle visite, con autocertificazione, di non più di due persone, una sola volta al giorno, a parenti o amici, con impossibilità di un reale controllo. Vedremo attorno al 15 gennaio se queste blande misure hanno sortito qualche effetto. Per ora la curva è in salita.

Ma il nostro atteggiamento è cambiato. Non più disciplinati e attenti, ma scettici e pronti a condurre una vita normale, vista la scarsa probabilità di incorrere in un controllo e di essere sanzionati. (969 sanzioni su 64.119 controlli nel giorno di Santo Stefano appaiono pochini, almeno a vedere la quantità di gente per le strade).

Eppure anche queste blande misure sono state oggetto di critiche da parte dell’opposizione “Non togliamo il Natale ai bambini!” tuona il leader della Lega mentre negli ospedali muoiono ogni giorno più di 800 persone e la curva dei contagi si impenna. La cosa preoccupante è che, ormai, forse stressati da questi dieci mesi di pandemia siamo portati a credere (voglia di democratura?) a chi urla di più e a chi sostiene – a parole i nostri desideri di una vita normale, dimenticando che, fino al termine della vaccinazione, l’unico rimedio è quello conosciuto fin dai tempi di Boccaccio e del Decamerone: distanziamento e mascherina.

Eppure, io lo ricordo benissimo, quante volte abbiamo pensato di voler evitare i cosiddetti “doveri delle feste”: regali, shopping, pranzi con 20 persone, veglioni etc etc; per una volta ne abbiamo l’opportunità. Sfruttiamola, facciamo esperienza, Abbiamo avuto altri Natali, avremo altri Natali.

E la speranza di una vita normale ora c’è: da ieri è iniziata la campagna vaccinale. E’ stata, oltre al Recovery Fund, una vittoria dell’Unione europea (anche se l’euroscettica Ungheria si è rivolta alla Russia e la Germania ha bypassato l’UE per una ulteriore fornitura – furi sacco – di vaccini con la tedesca BionTech. Gli ingenti fondi stanziati per la ricerca hanno dato i loro frutti. Le fasi della ricerca sono state ripetute in contemporanea e non in sequenza da diverse industri farmaceutiche e, in 10 mesi, il vaccino è arrivato. Sono insorti, però, i no-vax “il vaccino non è sicuro”, “non è possibile ottenere un vaccino in così poco tempo”, “dentro ci sono i microchip di Bill Gates” urlano i laureati all’università di Facebook. Perché accade questo fenomeno? Perché, come disse Umberto EcoI social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, quelle che erano, una volta, chiacchiere da bar, diventano pensiero dominante? Probabilmente per una voglia di essere “diversi”, di “stare sotto i riflettori”. Se si conduce una vita scialba, aderire ad una teoria diversa dal pensiero comune ti diversifica, ti fa partecipe di un segreto e di una verità diversa e, come succede agli adepti delle sette, ti fa sentire partecipe di una comunità “superiore” e questa sensazione diventa virale e appetibile.

Certo la politica non aiuta. L’opposizione, in difficoltà con le sue idee anti europee dopo la concessione di 205 miliardi di euro all’Italia per il Recovery Fund, la sospensione del “patto di stabilità” e l’arrivo dei vaccini comprati e gestiti dall’Unione, soffia ancor di più sulle idee care ai no vax. Il leader della Lega, non più di 20 giorni fa, sosteneva che si vaccinerà solo se il “vaccino è sicuro”, sottintendendo che esso potrebbe essere “non sicuro” e giocando sulla distinzione “non sicuro” (porta conseguenze negative indesiderate) e “non efficace” (non fa male, ma non protegge dal virus). Questo dà voce ai no vax e le prime avvisaglie si avvertono fra il personale delle RSA che, pare non si voglia vaccinare in percentuale rilevante. Forse si tratta solo di voler “alzare l’asticella” per ottenere benefici economici, forse di una errata convinzione, vedremo.

La vera causa di tutti questi problemi e dell’insofferenza alle limitazioni – secondo me – è la mancanza del ricordo o dell’abitudine alle privazioni. Ormai la stragrande maggioranza della popolazione italiana è cresciuta nel benessere. Quante volte abbiamo detto “La nostra generazione è la prima a non aver sopportato una guerra!” Se la memoria arriva indietro fino ai 6/7 anni di età, chi ha memoria della guerra ha oggi quasi 90 anni. La guerra, i lutti, l’olocausto, le privazioni, i rifugi antiaerei, la sensazione forte della precarietà della sopravvivenza sono solo ricordi di racconti dei genitori ormai quasi tutti deceduti. Non è da poco il generale atteggiamento iperprotettivo che i boomers hanno avuto con i loro figli.

Da qui il folle pensiero che esista un diritto inalienabile all’aperitivo o alla movida, il folle disinteresse per chi, non più giovane, potesse esser contagiato dagli assembramenti dei giovani fortunatamente indenni dal contagio, gli 800 morti giornalieri.

Forse dobbiamo ripensare ai metodi educativi italiani.

Ma la concezione dell’anno, come periodo di tempo definito è una convenzione umana basata sull’orbita della Terra intorno al Sole, ma i criteri potrebbero essere diversi. Il continuum temporale non si infrange nella notte del 31 dicembre mostrando una soluzione di continuità.

Tanti fatti, tante riflessioni sorte nel 2020 troveranno soluzione o sviluppo nel 2021; potranno essere smentite o confermate.

Il Covid-19 sparirà? La vaccinazione avrà buon fine? Il Governo Conte cadrà per opera di Renzi o per sé stesso? Il Regno unito proseguirà la sua crisi? Salvini continuerà a fare figuracce e a macinare consensi?

Posso rispondere solo con le parole di un nostro poeta:

“Venditore.  Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Passeggere. Almanacchi per l’anno nuovo?

Venditore. Si signore.

Passeggere. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

Venditore. Oh illustrissimo si, certo.

Passeggere. Come quest’anno passato?

Venditore. Più più assai.

Passeggere. Come quello di là?

Venditore. Più più, illustrissimo.

Passeggere. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore. Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore. Io? non saprei.

Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore. No in verità, illustrissimo.

Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore. Cotesto si sa.

Passeggere. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Venditore. Cotesto non vorrei.

Passeggere. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

Venditore. Lo credo cotesto.

Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

Venditore. Signor no davvero, non tornerei.

Passeggere. Oh che vita vorreste voi dunque?

Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

Venditore. Appunto.

Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

Venditore. Speriamo.

Passeggere. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

Venditore. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

Passeggere. Ecco trenta soldi.

Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.”

Solo una piccola riflessione, non ne conosco le cause, non faccio ipotesi. Solo che la cosa mi stupisce.

Leggo sui giornali, cartacei o on-line, i resoconti dei festeggiamenti per il trentennale della dissoluzione del muro di Berlino di cui ho già scritto stamattina. (il post è qui: https://sergioferraiolo.com/2019/11/09/come-cambia-il-mondo/)

Alle celebrazioni, oltre – ovviamente – la cancelliera Angela Merkel e al Presidente della Repubblica tedesca Frank-Walter Steinmeier , al massimo livello, erano presenti solo i quattro leader di Visegrád. Hanno presenziato il presidente della Polonia, Andrzej Duda, quello della Repubblica Ceca, Miloš Zeman, l’omologa della Repubblica slovacca, Zuzana Caputová e János Áder, capo dello Stato ungherese.

Ossia, erano presenti i leader degli Stati membri dell’Unione europea che hanno ricevuto di più dall’estensione ai loro territori dell’Unione europea e che poi, hanno sputato nel piatto dove hanno mangiato, ripudiando il principio cardine dell’Unione europea, quello della solidarietà.

Per come la penso io, questi paesi, al pari della Gran Bretagna andrebbero buttati fuori dall’Unione europea. Ma, poi, senza di loro, che Unione sarebbe? Solo una parziale alleanza di Stati.

Bisogna convincere il Regno Unito, L’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia, la Ceckia ad entrare un po’ di più nello spirito europeo. Ma come?

Facile. Adottando la politica delle sanzioni. E subito. Per esempio solo tre giorni fa la Corte di Giustizia ha sanzionato la Polonia per non aver rispettato le norme europee nella famosa estate dei migranti del 2015.

Ecco l’articolo di Repubblica di oggi.

Con la lentezza tipica della Giustizia (anche quella europea), si sta avviando alla conclusione la causa intentata dalla Commissione contro Polonia, Ungheria e Repubblica Ceka per non aver rispettato le Decisioni del 2015 sul ricollocamento dei migranti sbarcati in Italia e Grecia.

Prima della Sentenza, l’avvocato Generale rende le proprie conclusioni che, in genere formano il 90% della decisione della Corte.

Ma, stavolta, più che quanto affermato oggi dall’Avvocato Generale Eleanor Sharpston sul merito della questione, balzano in tutta evidenza le sue conclusive riflessioni che, nella mia non eccelsa traduzione, sottopongo alla vostra coscienza:

  1. La solidarietà è la linfa vitale del progetto europeo. Attraverso la loro partecipazione a tale progetto e la loro cittadinanza dell’Unione europea, gli Stati membri e i loro cittadini hanno obblighi, benefici, doveri e diritti. La condivisione dei “prodotti” europei non è una questione di esame dei trattati e del diritto derivato per vedere cosa si può pretendere. Richiede anche di assumersi le responsabilità collettive e (sì!) di sostenere il bene comune.
  2. Rispettare le “regole del club” e svolgere la propria parte in solidarietà con i compagni europei non può basarsi su un’analisi costi-benefici che spinge il denaro dove esso vuole andare (familiare, ahimè, della retorica della Brexit), di “cosa fa esattamente l’UE, di quanto mi costa settimanalmente e cosa ne guadagno personalmente?”. Tale egocentrismo è un tradimento della visione dei padri fondatori di un continente pacifico e prospero. È l’antitesi di essere uno Stato membro leale e di essere degno, come individuo, della cittadinanza europea condivisa. Se il progetto europeo deve prosperare e andare avanti, dobbiamo fare tutti meglio di così.
  3. Vorrei concludere ricordando una vecchia storia della tradizione ebraica che merita una maggiore diffusione. Un gruppo di uomini viaggia insieme in una barca. Improvvisamente, uno di loro estrae un cucchiaio e inizia a praticare un buco nello scafo sotto di sé. I suoi compagni si arrabbiano con lui. ‘Perché lo fai?’ Piangono. ‘Di cosa ti lamenti? – risponde – Non sto forse praticando il buco sotto il mio posto?’ ‘Sì’, rispondono, ‘ma l’acqua entrerà e inonderà la barca per tutti noi‘.

Questo significa essere EUROPEO, questo è il progeto di Adenauer, Shuman, De Gasperi, Spinelli. NOn facciamo sì che la fiammella che venti anni fa ha alimentato il vento di Tampere, si spenga.

Per la cronaca, la Causa di cui sopra è la C-715/17, unita con le C-718/17 e C-719/17.

Le Conclusioni dell’Avvocato Generale sono consultabili qui:

Ringrazio David Carretta per la segnalazione @davcarretta

Noi spesso ci lamentiamo del basso livello dei nostri politici che, spesso, nelle loro manifestazioni, sfiorano o superano il ridicolo.

I Britannici ci imitano.

Oggi, cioè ieri 19 ottobre, era l’ultimo giorno utile per il Governo inglese per chiedere una proroga della Brexit.

Più chiaramente, un emendamento approvato dal Parlamento britannico imponeva al Governo di evitare la Brexit senza regole, il famoso “No deal” ma, nel caso di mancata approvazione dell’accordo con la Unione Europea di chiedere a questa ultima una ulteriore proroga.

Boris Johnson si è sempre dichiarato contrario a ulteriori proroghe e ha sempre affermato che mai la avrebbe chiesta.

Il Parlamento britannico ieri ha bocciato l’accordo concordato da Johnson ed anche il primo ministro è soggetto alla legge.

E qui appare l’italico Macchiavelli.

Al presidente del Consiglio Europeo è arrivata, da Downing Street una lettera su carta intestata del primo ministro britannico, ma non firmata.

Una seconda lettera, firmata semplicemente “Johnson” ribadiva la contrarietà alla proroga.

Una terza lettera, firmata dall’ambasciatore Britannico presso la UE cercava di spiegare il tutto

Sono state avviate consultazioni fra i partner europei per tentare di comprendere l’accaduto…….

sergioferraiolo

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