Uffa, la sveglia, non la sopporto. Stavo sognando un meraviglioso pic-nic sul prato con i bimbi che rotolavano sull’erba ed, insieme alla tua compagna, ti strappavano tutte le coccole di questo mondo; poi li prendevi sulle spalle e facevi la corsa del cavallo. No, invece, bip bip bip, sempre più forte, BIP BIP BIP, manca un quarto alle sette, basta sognare, la realtà ti riprende e ti rivuole.

E’ inverno, è ancora buio, mi alzo, vado in bagno. No non è giorno di doccia. Solo fra qualche giorno sarà il mio turno. Lo spray pulente mi avvolge il corpo; inquinerà, ma tanto ormai…. Colazione. La porzione standard ha l’etichetta “Colazione rustica al prosciutto”, apro il forellino, ci metto 10 cc di acqua riciclata, e lo infilo nel microonde, lo scarto e addento il contenuto: chissà qual era, una volta, il sapore del prosciutto, mi pare si facesse con la coscia dei maiali, mi pare. Altri 10cc di acqua riciclata partono per render liquida la polvere di caffè. Caffè? Si, vabbè, chiamiamolo caffè. Devo stare attento, la mia razione mensile di acqua riciclata sta per finire.

Quasi con sollievo mi metto la tuta da esterno e, sul telefonino, leggo l’ultimo bollettino della Protezione civile sull’epidemia. I casi sono aumentati ulteriormente, l’indice ErreTiConZero  è a 4,5. Consigliano la mascherina TT2 con filtro ai carboni attivi, occhiali grandi aderenti, tuta usa e getta in TNT sanificato e visiera trasparente. Posso uscire dalla mia “unità 345-B-8108, safe”.

Il dilemma di ogni mattina. Prendere la metropolitana superaffollata e rischiare un contagio, ma fare prima, oppure andare al lavoro a piedi, 6 chilometri, un’ora e mezzo, salutare ma stancante. Scelgo la metro, tanto lungo la strada a piedi non ci sono più bar aperti per un cappuccino e una chiacchiera col barista, ormai ricordi di gioventù. Il rischio in metropolitana è alto, ma, ormai, la vita è solo un peso, la percentuale di suicidi aumenta del 100% l’anno.

Soliti avvisi. “Le carrozze hanno già raggiunto la capienza massima permessa del 30%. State indietro e distanziati. Il prossimo convoglio sarà qui a minuti”. Intanto la folla aumenta e, finalmente al terzo tentativo riesci a entrare nella carrozza. Le porte si chiudono e si aprono gli ugelli che ci aspergono di disinfettante nell’illusorio tentativo di neutralizzare il virus che può annidarsi sulle nostre tute.

Entro nel palazzone dove svolgo le mie mansioni lavorative. Sono assegnato alla “Bolla 203”: prima di entrare uno scanner mi rileva la temperatura corporea, passo il dito su una punta e la gocciolina di sangue viene analizzata istantaneamente. Il doppio esito negativo mi consente di entrare nella “Bolla 203” dove posso togliermi occhialoni e tuta da esterno e posso indossare una mascherina più leggera. I colleghi sono sempre gli stessi, solo con loro posso interagire, ma in tre mesi, “quelli della bolla 203 sono diminuiti di 23 unità. Ormai non si chiede più perché Tizio non c’è, si sa. Si sa che è stato contagiato e ora lotta fra la vita e la morte.

Il lavoro è pesante, una volta c’erano i computer, ora i faldoni cartacei la fanno da padrone. Non ho altro desiderio di tornare nella mia “unità 345-B-8108, safe” per l’unico momento bello della giornata.

Torno, mi “igienizzo”, e accendo il computer: Skype, Zoom, Google meet sono gli unici strumenti che mi permettono di parlare con qualcuno senza il diaframma della mascherina e degli occhialoni. Vabbè, c’è il diaframma dello schermo, ma ormai la realtà virtuale è più reale di quella reale.

“Ciao Giovanna, stai bene, vero, stai ancora bene, vero?”. Il volto di Giovanna si appalesa sullo schermo, bello e sorridente. Il rossetto ocra scuro, ultima moda, risalta e risplende con tutto il glitter che contiene. Sì, la bocca degli altri, questa sconosciuta. Sottile o carnosa, denti sporgenti o a paletta; labbra protese per un bacio virtuale o dure per un discorso serio. Chi l’avrebbe mai detto che le labbra sarebbero diventate un “oscuro oggetto del desiderio”, nascoste alla vista come il seno, come la vagina; le labbra come strumento femminile della seduzione, scoperte e disvelate solo nell’intimità di Skype o di Zoom.

Le conversazioni via Skype o Zoom seguono sempre lo stesso rituale. Dopo il come stai? Domanda retorica visto che l’immagine che rimanda lo schermo è di una persona sana, dopo i soliti convenevoli, le domande stupide sul “cosa fai?”, inutile, vista la vita che facciamo tutti, si comincia invariabilmente a tornare indietro nel passato.

“Ti ricordi come eravamo stupidi allora, all’inizio del 2020, quando guardavamo di sfuggita i telegiornali e confinavamo quell’epidemia cauta da quel virus, come si chiamava? Ah sì, Covid-19, solo in Cina? Ti ricordi quando all’inizio di marzo di quell’anno ci siamo tutti buttati sugli impianti di risalita perché non potevamo rinunciare alla domenica sugli sci?”.

Le labbra piene di glitter si strinsero in un sorriso forzato, ma poi si mossero per ribattere, un po’ incerte perché gli anni passati da quegli avvenimenti rendevano confusi i ricordi. “Sì, mi ricordo, ero bambina, ma mi ricordo che non potevamo uscire e cantavamo sui balconi, era marzo, la primavera e l’estate stavano arrivando. Sì, fammi fare una citazione, Quos vult Iupiter perdere, dementat prius, eravamo in una follia collettiva. Ricordo vagamente che in estate il contagio del Covid-19 si abbassò. L’abbiamo sconfitto, pensammo tutti. Sì, tana libera tutti, e tutti al mare, tutti in discoteca, tutti a riunirci nei luoghi deputati, i navigli, il Pantheon, i murazzi, perché eravamo liberi per adorare il moloch dell’epoca, una bevanda arancione, alcoolica, da sorbire in quanta più compagnia possibile, per stare vicini, per toccarsi per abbracciarsi per baciarci”.

Il ricordo lontano mi faceva male, perché, essendo un po’ vecchietto, avevo vissuto gli avvenimenti in prima persona. Me lo ricordo bene: il rito dell’aperitivo in compagnia era più vincolante dei riti religiosi, ancora più vincolante del tentacolarsi in discoteca con quanta più gente possibile; amici e non amici. Al ritmo della disco music fu “obbligatorio” in quella lontana estate, affermare con il comportamento che “qui di Coviddi non ce n’è!”.

La gara ai ricordi di quell’anno sciagurato si faceva serrata, anche perché, comunque, allora la situazione era aurea rispetto a quella attuale. In quell’estate si andava al mare, si andava a mangiare in luoghi pubblici: esistevano i ristoranti. Quindi ricordare l’anno in cui tutto iniziò significava ricordare comunque un tempo migliore.

“Ma, ti ricordi, Giovanna, cosa successe dopo quell’estate di follia?”

Le labbra glitterate si contorsero in una smorfia.

“Certo che me lo ricordo. Ad ottobre, appena aperte le scuole, la curva dei contagi ebbe una impennata sconvolgente. Da poche centinaia di casi al giorno arrivammo a più di 40.000 casi al giorno e a circa 800 decessi quotidiani”

Poca roba rispetto ad oggi, pensai. Bastò un provvedimento molto soft del Governo che divise l’Italia in tre colori. No, non bianco, rosso e verde, ma giallo arancione e rosso, secondo la gravità crescente della situazione. Provvedimento soft, perché anche se nelle zone rosse era vietata la circolazione, le deroghe erano talmente tante che l’unica certezza era che non si poteva andare al ristorante. Bastò questo provvedimento soft perché i contagi si dimezzassero e, allora, accadde il vero casino.

Da una parte la situazione epidemiologica migliorava ma…….. ma stava arrivando Natale. Natale, ricordi di quando ero bambino. Rito pagano, non religioso, corsa ai negozi, regalini, corsa verso gli altri. L’imperativo era “incontra quante più persone puoi” oppure “il giorno di Natale a tavola con tutta la famiglia quanto più allargata possibile”, dieci, venti persone attorno a un tavolo, senza mascherina protettiva (allora si usava un tipo primitivo, detto “chirurgica”) che vociavano, si alitavano in faccia, si scambiavano i piatti comuni. Sì, questo, in anni lontani era la tradizione natalizia. Comportamenti non proprio in linea con quella che, allora, era una debole pandemia. Ma il Natale “valeva” 20/30 miliardi di fatturato fra regali e agroalimentare. Un Paese con un debito pubblico mostruoso non poteva permettersi di farne a meno. Un Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, un DPCM, quanto mai vago, contraddittorio e impreciso, allargò la stretta degli spostamenti: molte regioni, al secondo giorno di miglioramento, furono promosse in una fascia più libera, i negozi riaprirono per permettere i regali natalizi. Il solito caos del Natale di quei tempi, insomma. Poi, con la scusa dell’inviolabilità del domicilio, solo raccomandazioni, puntualmente disattese, sul numero dei commensali dell’allora tradizionale Pranzo di Natale.

L’immagine delle labbra tirate di Giovanna che soffiava via i brillantini del glitter mi distolse dai miei pensieri, la sua voce dura di più. “E tu ricordi che oltre al natale ci fu di più?”

“No, son passati tanti anni, cosa?”

“Era inverno e i milanesi, oltre l’aperitivo, volevano lo sci. Un comparto già in crisi per l’inizio del cambiamento climatico, già sovvenzionato abbondantemente dallo Stato, voleva riaprire, con la scusa che in montagna si va da soli , ignorando non solo gli affollamenti nelle cabinovie, ma anche i precedenti austriaci che avevano infettato mezza Europa. L’Unione europea imitò, come al solito, Ponzio Pilato e se ne lavò le mani. L’Austria riaprì gli impianti, la Svizzera dichiarò di voler ospitare gli sciatori italiani nel caso di chiusura degli impianti nel Bel Paese. E il Governo PD-5stelle cedette: gli impianti sciistici furono riaperti agli sciatori e, con essi, al virus che ne approfittò per spargersi in tutta Italia.”

Fu, quello, l’inizio della fine. Il combinato disposto Feste di Natale/riapertura impianti sciistici scatenò la terza ondata. La curva del contagio risalì in verticale e l’indice ErreTiConZero schizzò in alto. Il Governo provò con sei Decreti ristori a tappare le falle economiche provocate con l’inevitabile ulteriore lockdown durissimo, ma i miliardi in deficit superarono quelli attesi con il Next Generation EU.

Fu imposta una patrimoniale che, ovviamente, pagarono sempre i soliti percettori di reddito fisso, quelli che, dileggiati per non aver perso nulla durante i lockdown, con le loro tasse avevano consentito l’erogazione dei ristori ai lavoratori autonomi.

Successe, allo Stato italiano, quello che accadde, dopo il 1989 (ma forse siete troppo giovani per ricordarvelo) all’impero sovietico. Semplicemente si dissolse. I suoi gangli vitali furono preda di spregiudicati gruppi privati che, semplicemente, si sostituirono allo Stato imponendo la loro semplice e pura logica dell’assoluto profitto: se potevi (profumatamente) pagare, avevi le prestazioni. In caso contrario ti arrangiavi.  I sindacati furono aboliti; chi lavorava era un privilegiato. D’altronde, vista la corsa della pandemia, rinforzata da nuovi virus, era un privilegiato chi rimaneva in vita.

Eppure nei collegamenti Skype e Zoom quei tempi ormai lontani erano ricordati con nostalgia. Le mascherine erano solo un velo, non si poteva uscire ma si usciva, i contatti interpersonali, comunque, c’erano. E c’era l’acqua a volontà e il cielo era azzurro. E c’era l’aria e c’era la voce, dal vivo, degli altri.

“Ciao Giovanna, ti vedo in forma, spero di risentirti domani”

“Ciao Sergio, anche tu mi sembri in forma, ci sentiamo domani?”

“No, Giovanna, domani è il 25 dicembre, una giornata piena al lavoro, non penso di farcela, ci sentiamo più in là, stammi bene”