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Dopo il racconto del numero dei parlamentari nella Costituzione, delle ragioni addotte (e smentite) dai promotori sull’asserito risparmio, descritti nei post precedenti, in questa terza parte vorrei smontare le motivazioni dei Cinquestelle sull’assunto che, così “l’Italia potrà allinearsi agli altri Paesi europei, che hanno un numero di parlamentari eletti molto più limitati”.

Ossia, dicono i promotori del Referendum, l’Italia ha un numero di Parlamentari spropositato sia rispetto alla popolazione, sia rispetto ai Parlamenti degli altri Stati europei ed extraeuropei.

Sull’elevato numero interno dei Parlamentari si può ribattere che tale numero, nonostante la riforma del 1963, e nonostante la crescita della popolazione di oltre 14 milioni di persone dal 1947, è rimasto sostanzialmente invariato dai tempi della formazione della Carta Costituzionale ed è, quindi, diminuito il rapporto popolazione/rappresentanti. Ma i promotori del referendum sostengono anche che l’Italia ha un numero di parlamentari molto superiore a quello di altri Paesi.

Innanzitutto non si possono sommare mele e fichi. Il numero dei parlamentari dipende, infatti dalla forma costituzionale che il singolo Paese si è dato. Se è uno Stato centralista, se il governo è decentrato, se è un Paese federale etc.etc. Quindi, per ogni confronto, è necessario un considerevole numero di distinguo e precisazioni.

La balla più grossa che ho sentito è il confronto con gli Stati Uniti d’America che, a fronte di oltre 328 milioni di abitanti avrebbero una Camera dei rappresentanti composta da soli 435 membri e un Senato composto da soli 100 membri. Sostenere questa bufala è colpevole perché significa ignorare che Camera e Senato negli USA sono solo gli organi “federali” del Paese. I cittadini americani, quando parlano o pensano allo Stato, non pensano allo Stato federale, bensì pensano ad uno dei 50 Stati che compongono la Federazione.

E ogni Stato nazionale USA ha il suo Parlamento, con competenze molto maggiori delle nostre Assemblee regionali, E ogni Stato , a sua volta, è diviso in Contee, ognuna con la sua Assemblea, e le Contee , a loro volta sono divise in Comuni, ognuno con i proprio consiglio (Vedi più compiutamente a questo link). E ogni assemblea, statale, di Contea o comunale, può imporre tasse proprie. Il fatto è che noi europei, quando guardiamo agli Stati Uniti tendiamo a guardare solo al Governo federale che, è quello che meno interessa agli americani perché ha solo competenze che riguardano la generalità dei 50 Stati (poche) e questioni di difesa o politica estera (quelle che hanno più appeal per noi europei). Potrei dire che il cittadino americano, fra comuni, contee, Stato nazionale e Stato Federale, è quello che ha più rappresentanti di tutti, esattamente il contrario di chi propaga la fake news di una più ridotta rappresentanza.

In Francia (popolazione circa 67 milioni) L’Assemblea Nazionale, (eletta per 5 anni) è formata da 577 membri noti col nome di Deputati, eletti in un collegio elettorale uninominale a doppio turno. Il Senato francese, eletto a suffragio indiretto da circa 150.000 grandi elettori (sindaci, consiglieri comunali, delegati dei consigli comunali, consiglieri regionali e deputati) dura in carica sei anni ed è composto da 346 senatori.

In Germania (popolazione 83,2 milioni) la Camera de Deputati (Bundestag) è attualmente composta da 709 membri (il numero totale è variabile per uno specifico sistema elettorale in cui si vota disgiuntamente il candidato e il partito) e dura in carica quattro anni.  Il Senato (Bundesrat) è composto di soli 69 membri ed è  l’organo attraverso il quale i Länder partecipano al potere legislativo e all’amministrazione dello Stato federale  e si occupano di questioni relative all’Unione europea. Qui si nota una profonda differenza con il nostro Senato. Il Senato tedesco non è una Camera paritaria con il Bundestag, bensì rappresenta, con vincolo di mandato, la volontà dei vari Lander, perché la Germania è uno stato federale. Ogni Land ha poi il suo parlamento nazionale per un totale nazionale di ben 1821 membri.

In Spagna (popolazione quasi 47 milioni), i Parlamento (Le Cortes Generales) sono composte da Camera (350 deputati) e Senato (266 senatori) e durano in carica quattro anni.

Il Governo locale, in Spagna non è uniforme, Si va da “Regioni” che possono essere assimilate a quelle italiane a veri e propri Stati che rivendicano la loro indipendenza come la Catalogna, (vedi questo link) dotata di un vero e proprio Parlamento locale e che acquisisce competenze di rango superiore, derivanti da accordi con il Governo centrale. Alla larga, si può pensare a quello che succede da noi con la Provincia autonoma di Bolzano.

In Gran Bretagna la Camera dei comuni (organo legislativo) è composto da 650 membri. il numero dei membri della Camera dei Lord non è fisso; ad agosto 2019 era composta da 772 eligible members (membri idonei, che possono partecipare alle sedute). Dei membri idonei, 659 sono membri a vita (il cui titolo non passerà ai figli), 87 sono membri ereditari e 26 Lord spirituali. La Camera dei Lord non ha potere legislativo, ma consultivo. Bisogna, però, considerare che nel Regno unito (praticamente Stato federale) esiste anche il Parlamento della Scozia (129 membri), del Galles (60 membri) e dell’Irlanda del Nord (90 membri) che compensano la mancanza dei ”senatori” con potestà legislativa.

E abbiamo quindi sfatato la fake news che voleva che l’Italia avesse un numero di parlamentari spropositato rispetto agli altri Paesi. Anzi, se al Referendum dovesse vincere il sì, l’Italia sarebbe all’ultimo posto come numero di parlamentari fra le nazioni simili.

Continua….domani

Se nella prima parte abbiamo fatto un po’ di storia sul numero dei parlamentari e sulle supposte ragioni addotte dai promotori della legge, in questa seconda parte cerco di smontare alcune delle motivazioni poste dai Cinquestelle a fondamento della loro proposta [risparmio ed efficienza]. La motivazione principale è il risparmio delle Casse dello Stato dovuto alla minore spesa per lo stipendio dei parlamentari “tagliati”.

I Cinquestelle hanno stimato il risparmio per lo Stato di oltre 500 milioni di euro. Tale risparmio è stato più volte smentito, in quanto calcolato su una intera legislatura di cinque anni e al lordo delle tasse [se diminuisci una massa stipendiale, riduci anche l’introito IRPEF da questa generato].

Calcoli univoci, vedi WallStreet Italia a questo link, stimano un risparmio netto di 57 milioni l’anno, che ad un singolo sembrano tanti, ma costituiscono appena lo 0,007% della spesa annua dello Stato. Anche sull’intera legislatura, al netto delle tasse [solo così è possibile considerare il risparmio reale], la diminuzione di spesa arriva sì e no a 285 milioni, poco più della metà di quello [500 milioni] reclamizzato dai Cinquestelle che calcolano il risparmio sul lordo degli stipendi, non considerando che diminuendo gli stipendi diminuisce anche il gettito IRPEF.

Se si tiene conto che il costo del Referendum che andremo ad affrontare, fra spese vive e compensi aggiuntivi ai componenti delle circa 63.000 sezioni elettorali, ammonta a circa 300 milioni di euro, ecco che ci siamo giocati il risparmio di una intera legislatura.

Seconda motivazione: aumentare l’efficienza delle Camere. Su questo aspetto il punto interrogativo è grande quanto una casa: meno parlamentari rendono il Parlamento più efficiente?

Qui un po’ vi dovete fidare. Chi mi conosce sa che, come tecnico di Ufficio legislativo, ho passato venti anni della mia carriera professionale nel Senato e nella Camera di cui – ormai – conosco anche i più reconditi meccanismi.

Il problema principale del Parlamento non è il numero dei suoi membri, bensì le regole che si è dato, i famosi Regolamenti, che hanno rango di leggi costituzionali.

Il Regolamento della Camera è a questo link.

Il Regolamento del Senato è a questo link.

Il principale problema, mai affrontato, che genera confusione e ritardi, è quello della convivenza fra Commissioni, il cui calendario è deciso dal Presidente della stessa e l’Aula, il cui calendario è deciso, all’unanimità, dalla Conferenza di Capigruppo.

Chiunque abbia studiato un po’ di “educazione civica” sa bene che una legge, per essere approvata, deve passare il vaglio di ben quattro letture, Commissioni [merito e pareri] e Aula della Camera e Commissioni [merito e pareri] e Aula del Senato. Il lavoro delle Commissioni è importantissimo: è lì che la materia viene sbozzata e preparata per la votazione dell’Aula, ma il lavoro delle Commissioni spesso è interrotto dai lavori dell’Aula che chiama a raccolta i Parlamentari per il voto. Non escludo, non ho fatto i calcoli, che con la riduzione del numero dei parlamentari sarà impossibile – per carenza di numero legale – il lavoro contemporaneo di Aula e Commissioni con il risultato di un blocco totale del Parlamento.

Spesso, lo avete letto sui giornali, il testo di una legge viene chiamato dall’Aula, quando non è ancora finito il lavoro delle Commissioni per esser completamente rimpiazzato da un maxi emendamento sostitutivo su cui il Governo pone la fiducia.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: leggi incomprensibili composte di un solo articolo e di centinaia di commi, illeggibili, per nulla chiare e suscettibili di interpretazioni varie, come – ad esempio – la legge di bilancio 2019,  (LEGGE 30 dicembre 2018, n. 145 Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021. (GU n.302 del 31-12-2018 – Suppl. Ordinario n. 62 )   approvata dal Parlamento senza passare per le Commissioni. Ci capite qualcosa?  Vi sfido.

Questi problemi anzidetti, non verranno certo diminuiti o eliminati dal taglio netto dei parlamentari, ma verranno senz’altro amplificati per mancanza “di forza lavoro”.

Senza eliminare una parte dei Parlamentari, un miglior risultato poteva essere ottenuto approntando il lavoro del Parlamento – come si fa in tante altre parti del mondo, compreso il Parlamento europeo – per “sessioni”: per tre settimane lavorano solo le commissioni che, nella quarta settimana, riversano il loro lavoro, pronto e pulito, al vaglio dell’Aula.

Con la riforma di un taglio netto dei parlamentari non si risolverà, poi, alcuno dei problemi che affliggono il nostro Parlamento come l’ostruzionismo, la presentazione di migliaia di emendamenti da parte di un solo parlamentare [ricordate Calderoli e la sua macchina “produciemendamenti”?]. Non si risolverà la transumanza dei parlamentari da un Gruppo all’altro. Gli uffici di supporto ai gruppi parlamentari, pagati con le nostre tasse, rimarranno uguali a quelli di adesso, non essendo – per loro – previsto nulla nel referendum.

Il costo della macchina “Parlamento” rimarrà praticamente uguale.

I Parlamentari, che siano 600+315 o 400+200, potranno comunque essere assenteisti o stakanovisti, bravi o mezze calzette, animati da buoni propositi o solo dall’attaccamento alle poltrone. Questo taglio non incide assolutamente sulla qualità dei parlamentari.

Prima di tagliare i Parlamentari, si riformino i regolamenti, per esempio tornando al disposto costituzionale dell’art. 72 che dispone che i disegni di legge siano approvati “per articoli” e non per commi o sottocommi, o parole immesse nei testi.

Infine, c’è qualcuno, anche quotidiani nazionali, che affermano che il Parlamento abbia troppi parlamentari perché ora ci sono le Regioni e il Parlamento europeo. Veramente le Regioni e le assemblee regionali erano state previste anche dalla Costituzione del 1947 ed anche la loro potestà legislativa, basta guardare gli originali articoli 117 e 118 (poi modificati nel 2001). Ritenere che il Parlamento europeo sia in competizione e contrasto con i Parlamenti nazionali significa non conoscere che Il trattato di Lisbona ha definito per la prima volta il ruolo dei parlamenti nazionali in seno all’Unione europea. I parlamenti nazionali, ad esempio, possono esaminare i progetti di legge dell’UE per controllare se rispettano il principio di sussidiarietà, possono partecipare alla revisione dei trattati dell’UE, oppure possono prendere parte alla valutazione delle politiche dell’UE in materia di libertà, sicurezza e giustizia. Il trattato di Lisbona ha inoltre specificato che il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali dovrebbero definire insieme l’organizzazione e la promozione di una cooperazione interparlamentare efficace e regolare in seno all’Unione europea.

Di conseguenza, il Parlamento europeo ha adottato nel 2009 (vedi link qui) e 2014 (vedi link qui) risoluzioni che trattano specificamente dello sviluppo delle relazioni tra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali.

Continua…..domani….

Si fa un gran parlare, in questi giorni di possibile rottura fra gli alleati del Governo che – fra le possibili conseguenze – potrebbe portare ad elezioni anticipate.

Non è così.

Questa legislatura durerà a lungo ma non per calcoli politici degli alleati (per ora) di Governo, né per eventuali governi tecnici.

Durerà molto perché non sarà possibile sciogliere le Camere. No, non sarà proprio possibile.

Perché? Perché a settembre sarà approvata la legge di riforma costituzionale di dimezzamento (o quasi) di deputati e senatori.

Il Disegno di legge A.S. 214 recante “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” (clicca qui per la scheda Senato), ora Atto Camera 1585-B (clicca qui per la scheda Camera) prevede la riduzione da 630 a 400 dei Deputati e da 315 a 200 dei Senatori.

Tralascio qui il merito della legge che – secondo me – consegnerebbe veramente il Parlamento in mano ai segretari di partito e sul quel ho scritto più volte (clicca qui e qui e qui e qui).

Vediamo le conseguenze tecniche. Il Disegno di legge in parola è un disegno di legge costituzionale che segue la procedura descritta nell’articolo 138 della Costituzione:

  1. “Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione [cfr. art. 72 c.4].
  2. 2.       Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare [cfr. art. 87 c.6] quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata [cfr. artt. 73 c.1, 87 c.5 ], se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.
  3. 3.       Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

L’11 luglio 2019 il Senato ha approvato in seconda lettura il testo della legge ma non con la maggioranza di due terzi dei propri componenti come descritto nel terzo comma dell’articolo 138 della Costituzione sopracitato.

Quindi anche se la Camera dovesse (pare a settembre) approvare all’unanimità il Disegno di legge, potrebbe scattare quanto disposto dal secondo comma sempre dell’art. 138 della Costituzione.

Se un disegno di legge di revisione costituzionale non è approvato da ciascun ramo del parlamento con la maggioranza dei due terzi, esiste la possibilità di chiedere un referendum abrogativo.

Il Referendum può esser chiesto da Cinque consigli regionali, oppure, da 500.000 elettori oppure da un quinto dei membri di una Camera (ossia 126 deputati o 63 senatori).

Reputo altamente probabile che tale ipotesi si avveri: 500.000 firme son facili da trovare e un buon numero di parlamentari che sa di non poter contare su una rielezione farà di tutto per portare alle lunghe questa legislatura.

La richiesta di referendum bloccherebbe le elezioni anticipate: non perché ciò sia vietato, ma perché non si saprebbe quanti deputati o senatori eleggere.

I tempi sono dettati dalla legge 25 maggio 1970 n. 352,

L’articolo 3 di tale legge dispone che una legge di revisione costituzionale non approvata con la maggioranza dei due terzi non sia promulgata e non entri in vigore, ma:

  1. Qualora l’approvazione sia avvenuta con la maggioranza prevista dal primo comma dell’articolo 138 della Costituzione, il Ministro per la grazia e la giustizia deve provvedere alla immediata pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale con il titolo «Testo di legge costituzionale approvato in seconda votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai due terzi dei membri di ciascuna Camera», completato dalla data della sua approvazione finale da parte delle Camere e preceduto dall’avvertimento che, entro tre mesi, un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque consigli regionali possono domandare che si proceda al referendum popolare.
  2. La legge di cui al comma precedente è inserita nella Gazzetta Ufficiale a cura del Governo, distintamente dalle altre leggi, senza numero d’ordine e senza formula di promulgazione.

Quindi bisogna aspettare tre mesi per vedere se Regioni, cittadini o parlamentari, nelle dovute forme chiedano il referendum abrogativo.

Se viene chiesto, l’articolo 12 della legge 352/70 dispone che la Corte di Cassazione abbia 30 giorni per decidere se la richiesta sia conforme al disposto dell’art. 138 della Costituzione- Se verifica positivamente la richiesta, l’articolo 15 della legge dispone che il referendum è indetto con decreto del Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che lo abbia ammesso.

La data del referendum è fissata in una domenica compresa tra il 50° e il 70° giorno successivo all’emanazione del decreto di indizione.

Ricapitoliamo i tempi.

Facciamo conto che la legge sia definitivamente approvata dalla Camera il 30 settembre 2019. Facciamo conto che la legge sia pubblicata, senza entrare in vigore, in attera di richiesta di referendum il 1° ottobre 2019, i 3 mesi terminano il 1° gennaio 2020. La Cassazione dovrà esprimersi entro il 1° febbraio 2020. Il presidente della Repubblica ha tempo per indire il referendum fino al 1° aprile 2019.

Il referendum si svolgerà fra il 20 maggio e il 10 giugno 2020.

Solo allora sapremo definitivamente quanti sono i Parlamentari della Repubblica.

Solo allora il presidente della Repubblica, se lo riterrà necessario, potrà sciogliere le Camere.

E qui detta legge l’articolo 61 della Costituzione:

  1. “Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti. La prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni [cfr. art. 87 c. 3].
  2. Finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti.”

Fin ora dallo scioglimento alle elezioni è sempre trascorso il massimo del tempo. Se sarà così anche stavolta, le elezioni delle nuove Camere (col numero attuale o ridotto di parlamentari) non potranno tenersi prima del 10 agosto 2020. Data improponibile.

Settembre? No, c’è la legge di bilancio.

Se ne riparlerà forse a primavera 2021.

Il Governo questo lo sa bene: per questo litiga, ma non rompe. Sa benissimo che, se dovesse andare in crisi, dietro l’angolo non ci sarebbero le elezioni anticipate, bensì più di un anno di “Governo tecnico”.

A meno che….. a settembre la legge di riforma costituzionale non venga, bocciata o archiviata per permettere lo scioglimento delle Camere prima della sua approvazione. Con lo scioglimento, il Disegno di legge di riduzione dei parlamentari decadrebbe e non se ne parlerebbe più. Molto meglio.

Ieri, il Ministro del lavoro Luigi Di Maio al Congresso della UIL, ha rilanciato un argomento caro ai Cinquestelle, la Democrazia diretta. Bisogna riformare l’istituto del referendum abolendo il quorum sotto il quale il referendum non passa. «Per anni i referendum li vinceva chi se ne stava a casa. È arrivato il momento, con l’abolizione del quorum» nel referendum abrogativo, «di fare in modo per cui chi va a votare conta e chi sta a casa si prende le sue responsabilità», ha detto il vicepremier.

In effetti al punto 20 del Contratto per il Governo del cambiamento [a proposito non sono riuscito più a trovarlo sul sito del blog delle stelle, dove è finito?] i partiti di governo affermano: “È inoltre  fondamentale  potenziare  un  imprescindibile  istituto  di  democrazia diretta già previsto dal nostro ordinamento costituzionale: il referendum abrogativo. Per incentivare forme di partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica nazionale occorre cancellare il quorum strutturale – ovvero la necessità della partecipazione alla votazione della maggioranza degli aventi diritto – al fine di rendere efficace e cogente l’istituto referendario. Ulteriore obiettivo di questa proposta, nel solco dello spirito che anima l’articolo 75 della Costituzione, è quello di scoraggiare, in ogni forma, l’astensionismo elettorale, spesso strumentalizzato per incentivare il non voto, al fine di sabotare le consultazioni referendarie.”.

 

Secondo me, l’intento, pur apprezzabile, sortisce effetti contrari al dominio della Democrazia sulla Politica e, oltretutto si scontra con quanto affermato al punto 1 dello stesso Contratto: “intendiamo incrementare il processo decisionale in Parlamento”. E, se passa, l’abolizione dle quorum, sarà proprio il Parlamento ad esser messo fuori gioco.

 

Il Referendum abrogativo è previsto dall’articolo 75 della Costituzione: “E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali.

Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80].

Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.

La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

La legge determina le modalità di attuazione del referendum.”

 

Quindi per eliminare il quorum c’è bisogno del procedimento di revisione costituzionale con doppia lettura.

 

Ma vediamo la sostanza della questione. La nostra è una democrazia rappresentativa e non una democrazia diretta. Il modo principale di “fare le leggi” è quello della discussione in seno al Parlamento. Lì siedono 630 deputati e 315 senatori, quindi circa un parlamentare ogni 47.000 elettori.

La Costituzione si preoccupa proprio di questo. Per sbugiardare il Parlamento abrogandone una legge, occorre una spinta molto forte da parte dell’elettorato: prima la raccolta di 500.000 firme, poi mobilitare al voto la maggioranza degli elettori (il quorum), infine che, in detta maggioranza, far prevalere i all’abrogazione. La Costituzione, rendendo difficile l’abrogazione di una legge con il referendum ha inteso privilegiare il ruolo del Parlamento rendendo le sue leggi difficili da abrogare.

Immaginate dove andrebbe la centralità del Parlamento se bastassero 30.000 o 20.000 o 10.000 persone che si presentassero alle urne per votare ad un referendum per segnare la vita o la morte di una legge votata in Parlamento.

Anche assegnare una connotazione negativa a chi a votare per il referendum non ci va, è sbagliato. Chi non va a votare, al pari di chi vota no, si fida dell’operato del Parlamento che ha liberamente contribuito ad eleggere

Secondo me, abrogare il quorum è andare contro la Costituzione: 10.000 sì non possono oscurare l’operato del Parlamento.

 

Ma in una cosa Di Maio ha ragione: la “strumentalizzazione del non voto per sabotare l’istituto del referendum”.

Per limitare la portata di questa strumentalizzazione, però, non c’è bisogno di abrogare il quorum.

 

Il quorum pari al 50% +1 degli elettori fu previsto e mantenuto nella Costituzione perché dal 1948 agli anni ’90 l’Italia era fra le prime nazioni al mondo per affluenza alle urne. Percentuali dell’85% non erano rare. Quindi il quorum doveva esser alto.

 

Oggi, invece,  specialmente alle elezioni amministrative, la percentuale si è pressoché dimezzata e questo rende – effettivamente – molto più difficile il raggiungimento del quorum stabilito dall’articolo 75 della Costituzione.

 

Una proposta, non mia, ma che appoggio pienamente, è quella di stabilire un quorum variabile ossia pari al 50% +1 non dell’intero corpo elettorale, bensì degli elettori che si sono recati alle urne nelle elezioni politiche immediatamente precedenti alle votazioni per il referendum di cui trattasi.

Mi sembra un ragionevole compromesso.

 

E ci risiamo, comincia la campagna elettorale e, subito, il povero Euro si prende tutte le colpe.

E’ di ieri l’affermazione del candidato CinqueStelle, Di Maio, che, se l’Europa non si allinea alle richieste dell’Italia, voterà a favore nel Referendum indetto per l’uscita dall’Euro.

Lo sa Di Maio che in un Europa a 27 Paesi è ben difficile andare col fucile puntato a dire o mi date quello che voglio o esco dall’Euro? La risposta più probabile sarà “E vattene dall’Unione europea!”.

Lo sa Di Maio che l’articolo 75 della Costituzione non ammette il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, come è l’adesione all’Euro?

Lo sa Di Maio che l’unico Referendum consultivo che si è tenuto in Italia nel 1989 è di dubbia legittimità costituzionale, in quanto non previsto, e di nessuna valenza giuridica?

Lo sa Di Maio che in questi anni di spensieratezza finanziaria siamo sopravvissuti solo perché c’era l’Euro?

Lo sa Di Maio che il tanto elogiato Tsipras che aveva condotto una campagna elettorale per  l’uscita dall’Unione europea, dovette cambiare idea repentinamente perché il giorno dopo il risultato elettorale a lui favorevole, centinaia di migliaia di greci si sottoposero a lunghe file davanti ai bancomat per fare scorte di Euro, facendo chiaramente capire che avevano molta più fiducia nella moneta europea che in un ritorno alla dracma?

Lo sa Di Maio che i Trattati UE NON PREVEDONO l’uscita dall’Euro ma solo la procedura prevista dall’Articolo 50 per l’uscita dall’Unione europea? Sì, quella che sta seguendo il Regno Unito e che, per ora, significa che  l’UK deve restituire frai 40 e i 60 miliardi di Euro all’Unione.

Lo sa Di Maio che queste improvvide affermazioni, queste panzane, spaventano i mercati con conseguente rialzo dello spread che paghiamo tutti noi?

E, da ultimo, ricomincia il ritornello del presunto errore del rapporto che fu fissato fra lira ed euro, a dire di molti politici, troppo sfavorevole per l’Italia.

E’ bene ricordare che il rapporto lira/Euro non fu fissato a tavolino secondo le idee del momento dei politici, bensì viene da lontano, da molto lontano.

Ricordiamoci che la Lira uscì dal sistema monetario europeo (SME) nel 1992 in seguito ad una fortissima crisi:

Il fenomeno speculativo dell’estate 1992 coinvolse la lira italiana e la sterlina britannica. Il governo italiano, retto da Amato, il 13 settembre decise di svalutare il cambio di riferimento della valuta nazionale complessivamente del 7%, in particolare la lira in sé fu svalutata del 3,5%, mentre le altre valute furono rivalutate del 3,5%.

Il 16 settembre dello stesso anno (giorno che sarebbe poi divenuto noto come “mercoledì nero“) il governo britannico decise di far uscire la moneta nazionale dallo SME. Il giorno dopo la medesima decisione fu presa dal governo italiano.” (fonte: Wikipedia).

Molti di voi non erano nati e non si ricordano i brutti momenti che passammo, paragonabili a quelli che passò qualche anno fa la Grecia.

Nel 1996 si cominciò a parlare di moneta unica e, condizione essenziale per farvi parte era rientrare nello SME ma con un cambio valutario corretto e, soprattutto, accettato da tutti i partner.

La missione di far accettare di nuovo la Lira nello SME toccò al ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi nel novembre 1996 che tentò di convincere  partner su un cambio di circa 1000 lire sul marco (ossia il cambio che allora i mercati accettavano).

Il resoconto di quella memorabile giornata è ben descritto in un articolo de L’Inkiesta (il link è qui) e di cui riporto alcuni passi.

Il punto chiave del rientro nello SME era il tasso di cambio ritenuto corretto dagli altri partner europei. Nella riunione di sabato mattina a Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio Prodi e Ciampi appresero dal Governatore della Banca d’Italia Fazio che la video-consultazione del venerdì aveva prospettato la posizione tedesco-olandese, che sostenevano che il cambio giusto per la lira sarebbe stato 925 per un marco. Prodi e Ciampi dissero che non se ne parlava neppure. Gli industriali italiani fantasticavano tassi di cambio ben superiori a quota 1.000, tipo 1.030/1.040. Il Governo sapeva che l’unica speranza era aggrapparsi alla cifra tonda: quota 1.000. Per ottenere 1.000, si decise si dare a Draghi e Ciocca il mandato di chiedere 1.010, con la facoltà di scendere a 1.000. Il tasso di cambio sui mercati in quei giorni viaggiava intorno a 985 lire per marco. Draghi e Ciocca non trovarono l’accordo ma riuscirono ad abbattere il muro delle 950 lire, trovando qualche difficoltà a trattare su quota 970.” …”[l’accordo] si trovò l’accordo in tarda serata (giusto in tempo per comunicare l’accordo prima dell’apertura dei mercati australiani: mezzanotte di Bruxelles equivale alle 9.00 a Sidney) a quota 990 contro marco. Questa parità di 990, non modificabile secondo il Trattato di Maastricht, sarà la parità base per il calcolo del cambio lira/euro a fine 1998, prima della nascita dell’euro, il 1° gennaio 1999“.

Infatti questa quota rimase fino al 31 dicembre 1998, data di nascita dell’Euro. E anche per le altre valute si tenne lo stesso metodo: il rapporto che rispecchiasse il valore reciproco delle singole valute rispetto alle altre partecipanti allo SME. In parole povere il valore dell’Euro rispecchiava i rapporti di cambio delle valute partecipanti allo SME, frutto quindi di un calcolo matematico e non di giochi di tavolino.

In conclusione la lira, nel 1996, rientrò nello SME con il valore che i mercati le davano, quindi “il giusto prezzo” ma, con in più – e qui sta la grandezza di Ciampi – con la fiducia che tale rapporto si sarebbe mantenuto nel tempo, senza più crisi come quelle del 1992.

Per finire  e per dare un esempio di quanto difficile fu ottenere questo cambio che ora i politici senza memoria ritengono ingiusto, riporto un altro pezzo dell’articolo sopracitato “Il Financial Times, però, il 26 novembre 1996 fece tornare il sorriso a Carlo Azeglio Ciampi. Lionel Barber – The quest for Emu: Italy home but not dry – descrisse Ciampi come un lottatore (“His craftiness is legendary”) senza pari in Europa, l’unico in grado di vincere la resistenza del duro dei duri, Hans Tietmeyer, Presidente della Bundesbank. Barber – tra l’altro – cita un diplomatico italiano: “Ciampi gave the performance of his life. Se qualcuno avesse provato la stessa operazione lo avrebbero buttato giù dalla finestra”.

 

Uno degli errori più frequenti che noi, poveri umani, commettiamo è quello di ergerci a misura di tutte le cose: il mio pensiero è quello prevalente nell’ampio consorzio in cui vivo.

Ci sono molte e valide scusanti per questo errore. A parte casi non frequenti, ognuno di noi vive per anni e anni nello stesso contesto e, quasi senza accorgersene, come olio nell’acqua o il mercurio dei vecchi termometri, tende ad avvicinarsi a chi è più simile trasmettendo le proprie idee e, nel più classico processo osmotico, assorbendo quelle di chi gli sta vicino.  Anche nell’odierna società “sempre connessa”, è falso il mito della completa informazione. Si clicca sempre sulle stesse testate giornalistiche, magari leggendo solo i titoli [che servono ad acchiappar polli]. Anche chi ha 3687 “amici” su Facebook, interagisce con non più di un centinaio di essi, quelli che hanno una maggiore comunanza di vedute: pian piano Facebook i mostra solo quelli con i quali hai una maggiore interazione; i post degli altri non li vedrai mai.

Inconsciamente, quindi, ci siamo creati un microcosmo di eadem sentire dal quale, per comodità o per noia non ci allontaniamo. E, allora, la coscienza comune di questo microcosmo ci appare estensibile all’universo intero come la verità ineluttabile e inconfutabile.

Pensino ora i miei venticinque lettori che mi onorano della loro attenzione che voglia tediarli con un discorso filosofico-antropolgico? No, era solo la doverosa premessa ad una senzazione che vorrei condividere; sensazione personalissima, ma che – forse – ho la presunzione che si estenda al di là del mio personalissimo microcosmo.

Qualche anno fa, un giovane politico toscano irrompe sulla scena politica, fa fuori un suo compagno di partito e si installa alla guida del Paese. I primo effetto è dirompente. Un boom di voti alle elezioni per il Parlamento europeo, superiore del 10% alla messe di voti conquistati dal partito nelle precedenti politiche. Peccato che, per orrenda tradizione italiana, le elezioni europee non sono mai state una test probante. Il nuovo premier va avanti deciso, vuole rivoluzionare l’Italia. Ce ne è bisogno, davvero. I suoi ministri sfornano lunghissime e complicate leggi che dovrebbero semplificare l’apparato burocratico. Ma va oltre, propone un nuovo disegno della carta fondamentale. Il disegno viene costruito in Parlamento con tutte le modifiche del caso necessarie per farlo approvare, ma il nostro se ne intesta la titolarità e chiede il responso del popolo sovrano più sul suo operato che sul testo della riforma costituzionale, invero piuttosto pasticciato.  Perde 60 a 40, ma si intesta tutto quel 40% e, pur non essendo più il premier, continua a dettare l’agenda sostenuto da un buon risultato alle primarie. Peccato che, rispetto alle precedenti, tanti siano andati al mare.

Questi i fatti.. D’ora in poi le sensazioni. Per la prima volta seto da tutte le parti una intenzione di votar contro. Non votar contro una idea, una linea, un programma. Ma votar contro una persona da parte di chi, per anni, ha votato per il partito di cui l’enfant prodige è segretario.

Quello che sento, anche nei bar emiliani, è una totale disaffezione non per il partito, non per la linea, ma per la persona. Sì proprio per la persona, non per le sue idee. Chiunque altro avesse proposto le sue idee, avrebbe avuto il consenso della base. Lui, poverino, no.

Me ne vado perché c’è lui, non perché non ami più il partito. Se quella persona non ci fosse, continuerei a votare quello che, da sempre, è il mio partito. Questo sento dire. Certo, forse, solo nel mio microcosmo che conta lo 0,00001% degli elettori. Sarà senz’altro così. Certo, gli altri la penseranno diversamente. Eppure…. mi riesce difficile trovarli.

Reputo questa riforma costituzionale scritta male, pasticciata e confusionaria. Se uno studente di giurisprudenza l’avesse portata come tesi di diritto costituzionale, sarebbe stato cacciato a pedate. Sono anche convinto che la riforma costituzionale non sia fra le massime priorità attese dal nostro Paese.

Però… però… le idee sottese a questo aborto di riforma mi piacciono. Mi piace che una sola Camera dia la fiducia al Governo, mi piace la più netta separazione delle competenze fra Stato e Regioni, mi piace la corsia preferenziale delle leggi di interesse del Governo: la Camera ha 70 giorni per decidere sì o no e di modificarla nel rispetto delle competenze istituzionali, ma se non lo fa, passa la norma del Governo. Diminuiranno senz’altro i decreti legge. Tutto sommato mi piace anche il traballante equilibrio di competenze/controllo fra Senato e Camera. Mi piace la riforma del referendum non più attaccato all’anacronistico 50% +1 dell’elettorato. Così i fautori del no non potranno più trincerarsi dietro l’astensionismo, ma dovranno andare a votare. Mi piace il miglioramento dato alla procedura  delle leggi di iniziativa popolare. La legge elettorale qui non è in discussione. Si vota su altro. D’altronde anche nella Costituzione del 1948 non c’era traccia del sistema elettorale con il quale si sarebbe andato a votare.

Prima si fa la legge fondamentale. poi, da questa si fa il sistema elettorale.

Se domenica prossima dovesse vincere il , tutto questo non andrà perduto. I nodi verranno certamente al pettine, ma le correzioni sono e sono state sempre possibili. Qualche legge costituzionale “correttiva” e le magagne potranno essere appianate. Per correggere ci vuol meno tempo che a progettare.

Se domenica dovesse vincere il no, al grido [di pancia] “E’ IL POPOLO CHE LO VUOLE” per almeno vent’ anni la Costituzione non si toccherà più e rimarremo nella palude delle conseguenze del no.

Non credo a sconquassi finanziari od economici. Sì ci sarà fiammata di spread e tonfi di borsa. Ma quello che mi fa un po’ paura è lo scenario che si va delineando per il dopo “vittoria del no”. Larghe intese (sinonimo di inciucio) per riformare l’italicum in modo proporzionale, in modo da favorire l’elezione di rappresentanti di tutte e tre le aree (sinistra, destra, pentastellati). Sul presupposto che i pentastellati, come fin ora, vogliano continuare a fare i duri e puri senza alleanze, fidando come un uomo politico del passato con panciotto di cachemere, nei vantaggi di stare all’opposizione, l’area di centro destra e quella di centro sinistra saranno costretti ad una grande coalizione dove mangeranno tutti. Tutti mangeranno e siccome sono tutti al governo non ci sarà responsabilità di alcuno.

P.S.: questo è quello che mi dice il cervello, ma anche la pancia non scherza. La settimana scorsa un settimanale ha pubblicato un collage di fotografie di volti di politici e personalità pubbliche schierati per il no ed un collage di fotografie di volti di politici e personalità politiche schierate per il sì. Non ci crederete, forze un effetto voluto dal fotografo, nessuno del gruppo di quelli schierati per il no mi è simpatico. Eh, sì, la pancia conta.

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