Vivo nella Capitale che, come sapete, non è che ultimamente se la passi molto bene.
Le sue magagne sono sotto gli occhi di tutti e non mi va di rinnovellar dolore.
Purtroppo le magagne di Roma si riflettono sui suoi abitanti che, come dice il Censis, ma ancor di più, son diventati rancorosi, cattivi ed egoisti . Chi vive lì, lo sa, si va sempre di fretta, un occhio al traffico e l’altro allo smartphone e tutti e due alle onnipresenti buche. Chi va in auto aggiunge il suono del clacson e qualche vaffa a chi tentenna.
Se si avvicina una persona con l’intento di chiedere qualcosa, spesso la prima reazione è un “no grazie!” e si tira dritto, senza sentire neppure cosa voglia. Panorama deprimente ma tant’è. Ci vivo da trent’anni ed il peggioramento della città e dei suoi cittadini è evidente.
Ma questo è il periodo dell’anno targato “feste di Natale” e da bravo emigrante, cerco di passarlo nella mia città di origine, sul mare, in terronia, ove in questo periodo tornano tutti gli emigrati e si rivedono facce amiche salutate l’anno prima.
Fra un cenone e una serata da amici, il tempo si passa fra lungomare e via principale incontrando gente, magari sorseggiando un aperitivo.
Ma qual è la storia di Natale? Un attimo e inizio: prima della rappresentazione bisogna pur descrivere lo scenario.
Stamattina vado al Municipio per una incombenza burocratica. Esco dal grande portone in stile fascista e mi accingo a godere del sole che splende sul lungomare.
Mi si avvicina un tizio, non molto bene in arnese, protende verso di me un vecchio telefonino, di quelli che si piegano in due e balbetta qualcosa sul non funzionamento dell’aggeggio: tipico modo di agganciare qualcuno per gli scopi più vari. Resisto – mea culpa – lo ammetto, alla tentazione di considerarlo uno scocciatore o peggio e cerco di comprendere quello che, in un italiano un po’ confuso (forse Europa dell’est?), cerca di dirmi. Sempre mia culpa, abituato alla Capitale, ammetto di aver chiuso con la cerniera la tasca ove tengo il portafoglio.
Mi spiega, in vari tentativi, vista la sua non padronanza della lingua che il suo telefonino appena comprato “trenta euro, non posso spendere di più” era caduto a terra e non si riaccendeva. “mi serve per comunicare con la mia famiglia che non è in Italia, aggiunge, son qui per lavorare”.
Non sono un tecnico dei telefonini, ma – non so perché, non so cosa mi spinge – ci provo: vedo che il dorso non è ben chiuso. Con difficoltà cerco di aprirlo dopo che il tizio mi ha assicurato che la batteria era carica. Ho pacchi e buste in mano, c’è una panchina al tiepido sole di dicembre; la diffidenza comincia a sciogliersi. Mi invita a sedermi. Lo faccio. Lo fa anche lui. Dalla sua tasca esce un piccolo giravite. Con questo faccio leva e il dorso del telefonino super low cost si apre. Non è certo un alto di gamma, forse un clone cinese dei vecchi Motorola: nella caduta la SIM si è spostata. La rimetto a posto, rimonto il dorso e…… funziona! Gli occhi del tizio si illuminano: potrà telefonare a casa. Insiste per offrirmi un caffè. Accetto e al bar conversiamo ormai amichevolmente e mi racconta le sue alterne vicende in terra d’origine ed in Italia. Ma questa è un’altra storia.
Dovrebbe essere una storia normale, non tale da meritarsi un posto in un blog. Eppure chi legge e vive in una Città come Roma sa quanto infrequenti sano questi episodi, come fermarsi a parlare con uno sconosciuto, immigrato, sedersi con lui su una panchina, perdere tempo (ma guadagnare esperienza) per tentare di riparargli qualcosa, prendersi un caffè insieme. Salutarsi poi cordialmente. Oggi sono stato toccato dal vento di Natale. Oppure, chissà, la quieta, serena e sonnacchiosa aria della provincia?
Vero, storie che dovrebbero essere normali divengono necessarie da raccontare… grazie per averlo fatto!
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