Il titolo di questo post è preso in prestito da un film di successo di un paio di anni fa, quando Winston Churchill rimase solo, con un Paese a pezzi dopo Dunkerque, a fronteggiare l’avanzata della Wermacht.

E, per l’Italia, questo è il giorno più buio. Non c’è una buona notizia. I morti per Coronavirus sono stati 133, raggiungendo la somma totale di 366. E mi fa rabbia il tentativo tranquillizzante di alcuni commentatori di minimizzare dicendo che erano anziani e quasi tutti con patologie pregresse. No, non ci sto. Questi morti non sono numeri, ogni vita è importante come tutte le altre. Una cosa è morire circondato dall’affetto dei cari o, improvvisamente, di infarto che ti spegne come una lampadina e cosa ben diversa è morire intubato e isolato in una camera sterile.

I casi totali sono saliti a 7375, i ricoverati in terapia intensiva sono 650. Una giornata tragica per i malati di questo bastardo virus. Non dico la più tragica perché la più tragica sarà domani e anche dopodomani.

Non voglio soffermarmi su questi dati noti, ma sul comportamento degli italiani.

Più volte da almeno due anni a questa parte, si è detto che il nostro Paese aveva smarrito la coesione sociale, per lasciar posto all’egoismo e all’individualismo. Certo che la politica ha ben aiutato questa trasformazione, questa paura dell’altro da sé. Della paura del futuro, della polemica per partito preso, diretta non alle idee dell’avversario, ma all’avversario in quanto tale. Della ricerca sempre e comunque di un nemico, di un capro espiatorio cui incolpare tutti i mali e le insoddisfazioni che ci portiamo appresso.

Sì il timore dell’altro. L’urto fortuito in metropolitana viene sempre interpretato come un tentativo di borseggio o accompagnato da urla o insulti. Se, in una strada affollata, mi avvicino troppo, l’altro da me istintivamente stringe al petto la borsa. In politica si ragiona per slogan o per spot, senza alcun contenuto, anche per schemi che puzzano di falso all’origine.

Non mi dilungo perché questa situazione è arcinota.

Tempo fa lessi un articolo di un sociologo che mi colpì molto. L’autore giudicava quasi irreversibile la tendenza all’egoismo e al populismo e lanciava una ipotesi un po’ azzardata: per rimettere in carreggiata gli italiani ci sarebbe voluta un avvenimento shock, una grande catastrofe o una guerra. Di solito questi avvenimenti risvegliano l’empatia e la coesione sociale.

Beh, è avvenuto: siamo il Paese che, dopo la Cina, ha il maggior numero di morti per il Coronavirus; per stessa ammissione dei medici NON abbiamo una cura, possiamo solo aiutare l’organismo a reagire, le strutture sanitarie della regione più popolosa, ricca e attiva sono al collasso. Una catastrofe, insomma.

Eppure nulla cambia. Gli italiani pensano sempre che non tocchi loro, ma qualcun altro.

Sono giorni che la Protezione civile urla che l’unico modo di rallentare [non di fermare] l’epidemia è quello della rarefazione sociale, di non aver contatti ravvicinati che permettano al virus di saltare allegramente da una persona all’altra. I medici urlano che, per evitare, per carenza di posti, di dover scegliere chi mettere in terapia intensiva, indicando cioè chi deve morire, è necessario diminuire i contagi.

E cosa succede? Gente positiva, ma in buone condizioni, se ne va in vacanza in Trentino, si sente male e infetta tutto il locale ospedale. Mentre i medici combattono negli ospedali sovraffollati, la gente si accalca nelle discoteche o nelle cabinovie degli impianti di risalita, fornendo al virus ampi pascoli.

Finalmente il Governo – non siamo in una dittatura – concepisce un provvedimento che limita la libertà personale. Mica per sempre. Lo hanno detto: se ognuno di noi rimanesse in casa per 15 giorni, mica per anni, il virus non avrebbe più i verdi pascoli e non ci sarebbero più nuovi focolai. Non è un sacrifico immenso.

E ieri sera entra in scena il grande show. Purtroppo, per l’art.117 della Costituzione, anche dopo aver proclamato lo Stato di emergenza nazionale, i provvedimenti di tutela della salute pubblica rientrano nella competenza concorrente di Stato e Regioni. I provvedimenti, quindi, vanno concordati. Ma, come quelli finanziari, (aumento IVA, patrimoniale etc) devono avere un effetto tagliola. Invece già dal pomeriggio cominciano a circolare le bozze, inizia la tenzone fra i Presidenti di Regione che vorrebbero allentare la morsa e il Governo che vorrebbe provvedimenti più restrittivi. La CNN pubblica sul suo sito, dicendo di averla ricevuta dall’Ufficio stampa della Regione Lombardia, il provvedimento che fa di ampie zone del nord Italia, zone rosse dalle quali non è possibile entrare o uscire. Si tratta di un provvedimento a tempo determinato con tanto di data di scadenza (meno di un mese) riportata in bella mostra. Provvedimento ormai non più rinviabile, data la escalation dei contagi e , ancora una volta accade lo show dell’egoismo. Una corsa all’ultimo metrò, all’ultimo treno per uscire dalle zone che verranno, ma solo per un po’, “chiuse”.

Atteggiamento comprensibile, ma irresponsabile. Molti hanno criticato la “fuga”, ma non è la fuga l’elemento di pericolo. Se uno è negativo, non diventa positivo spostandosi di 500 chilometri. L’atteggiamento, pericoloso per sé e irresponsabile per gli altri che in nessuna considerazione vengono tenuti, è IL VIAGGIO. Chiudersi in un vagone sovraffollato, in un aereo è il massimo pericolo. L’ambiente chiuso e affollato. Se sul treno o sull’aereo sale un solo contagiato, magari asintomatico e 350 sani, durante le ore di viaggio il virus troverà i famosi  verdi pascoli e da quel treno, da quell’aereo, scenderanno senz’altro molti, molti, più contagiati di quanti fossero alla partenza, pronti a contagiare parenti e nonni che li accoglieranno con affettuosi abbracci formando nuovi e numerosi focolai in regioni e province non accora così coinvolte, per di più con strutture sanitarie non certo all’altezza.

Ecco l’empatia e la solidarietà non sono affatto cresciute con questa catastrofe. Oggi, bella giornata di primavera, locali affollati e tanta gente che provava il primo assaggio di mare: affollamento, praterie di foraggio per il virus.

Il contagio riguarda sempre qualcun altro, mai te. Riguarda un numero indistinto, non una persona in carne ed ossa come te; fino a che non toccherà a te diventare un numero nella statistica dei ricoverati.

Fino a che, andando di questo passo, tu non sarai neppure ricoverato, perché non ci sono più posti e sarai lasciato morire a casa, magari inveendo contro il Sistema Sanitario Nazionale incapace di provvedere a te; non ti curerai degli altri, non ti curerai degli altri che con il tuo comportamento ha contribuito ad infettare; ti preoccuperai di te che non hai trovato posto in ospedale.

E se, nonostante tutto, rimarrai sano, vedrai lo Stato [che tu intendi non come collettività, ma solo come fornitore di servizi per te] disgregarsi: i medici ammalati non risponderanno alle tue chiamate, come succede in USA al preannuncio degli uragani i negozi verranno saccheggiati, il posto in ospedale si conquisterà a mano armata, tanto saranno ammalati anche i poliziotti. Scene che ti hanno divertito nei film horror ma che mai avresti pensato d vivere sulla tua pelle. I film di solito hanno l’happy end che, però, nella realtà non è garantito.

E tutto questo perché hai considerato il coronavirus come cosa che non ti riguardava, che riguardava sempre qualcun altro. Perché non hai dato ascolto a chi disperatamente ti implorava di stare a casa, di ridurre i contatti. NO, l’apericena e la partita di calcetto con gli amici, la palestra e la discoteca erano più importanti dell’altro da te che soffriva intubato in ospedale.

Stasera su Twitter è andato alto in tendenza l’hashtag #iorimangoacasa, supportato e sponsorizzato anche da personaggi dello spettacolo. È durato poco, subito superato dall’hashtag #JuveInter.

Domani, quando, non se, i TG riporteranno un raddoppio delle persone contagiate e il default di qualche ospedale chiediti perché.

grafico ammalati coronavirus
Grafico ammalati coronavirus in Italia