Voi tutti conoscete Matteo Salvini, Leader della Lega, senatore, ex-ministro dell’interno, che ha fatto dei social il suo megafono, dispensando fendenti a destra e a manca.
Un personaggio pubblico, insomma. E un personaggio pubblico che usa i social in questo modo non può non aspettarsi, sui social, qualche critica, anche severa.
Io uso i social sempre con il mio nome e cognome e certo a Salvini (che non ho mai conosciuto né visto), come ad altri personaggi pubblici, critiche non le ho risparmiate. Mai scendendo al suo livello, mai un insulto.
Eppure Salvini mi ha bloccato su Twitter. Badate bene, non sono stato bloccato da Twitter per violazione delle sue regole [violenza, nudo, incitazione all’odio, ingiuria, etc.], sono stato bloccato proprio da Salvini o da chi gestisce il suo profilo su Twitter (@Matteosalvinimi). E’ un suo diritto, non posso negarglielo, come nego che i miei tweet [sono pubblici, potete controllare sul mio profilo] possano aver violato le regole di Twitter che, infatti, non mi ha bloccato.
E’ Salvini che non vuole che io possa criticarlo sul suo account. Forse che il potente Salvini abbia paura di qualche critica di un anziano pensionato?
Esser bloccato da Salvini su Twitter non è certo una cosa che mi toglierà il sonno.
Ma mi fa riflettere. Un uomo politico che non accetta le critiche, bloccando chi le propone, cosa sarà capace di fare ai suoi avversari se e quando otterrà di tornare al Governo? Vorrà davvero i “pieni poteri”? Manderà gli avversari al confino o li sommergerà sotto il fango della sua “bestia”, la macchina di propaganda capitanata da Luca Morisi (@lumorisi)?
Sono segni forti questi, segni che fannoriflettere.
Riflettiamoci e ricordiamoci di questi segni quando apporremo, prima o poi, il nostro segno sulla scheda elettorale.
P.S. Pare che chi gestisce l’account #Twitter di Salvini abbia bloccato oltre 30.000 persone. Molto suscettibile il leader della Lega.
Sono stato dall’osteopata che mi ha diagnosticato una seria tendinite. Purtroppo, mi dice, i tendini non sono elastici come i muscoli e la infiammazione tende a indurire il tendine. Ha cominciato a massaggiarlo e le sue mani d’oro hanno provocato subito un miglioramento.
Le ho detto che ci mettevo sopra il Voltaren Pomata. Mi dice che sarebbe meglio la Vegetallumina che coi tendini funziona meglio. “La conosci?”. Certo, ritorno all’infanzia con quella bianca pomata con un odore molto penetrante che ti inguacchiava tutto e inguacchiato ti lasciava per parecchio. Quindi il consiglio che mi ha dato di fare una specie di impacco notturno con il piede avvolto nel domopack, mi sembrava del tutto compatibile con quello che ricordavo della consistenza della pomata.
Vado in farmacia, chiedo la Vegetallumina e il farmacista me la dà. Già la scritta mi suona diversa. Vegetallumina gel!. Mah, apro il tubetto e esce un gel profumato e trasparente .
Composizione un po’ differente, non macchia e profuma, non c’è più il biossido di Titanio.
La osteopata dice che lei solo questa conosce. Quando c’era quella che ricordavo io, lei ancora non lavorava….
Ah, la vecchiaia. …
Citazione: Che mal di testa, anche gli Optalidon non sono più gli stessi. Ti ricordi il tintinnio rassicurante del vecchio tubetto? Ora è tutto cambiato…” (Nanni Moretti: caro diario, 1993)
Due vasetti. Molto ecologici. Plastica leggera rivestita di cartone. Da dividere e smaltire separatamente secondo le buone pratiche per salvare il mondo.
Due vasetti comprati in un negozio alla moda che ha fatto dell’ecologia il suo brand.
Due vasetti molto molto simili. Comprati un po’ di corsa. E di corsa tolti dalla borsa della spesa e di corsa messo uno in frigorifero e uno nel bagnetto di servizio.
Stamattina c’è il sole. Fame. Voglia della mia colazione preferita: yogurt con müsli. Prendo il vasetto dal frigo, lo apro e, golosamente intingo il cucchiaino che esce pieno di polvere bianca dal forte odore di cloro.
No, fortunatamente, non ho usato in lavatrice lo yogurt come additivo di bucato.
Oggi, con ansia e tremore, ci hanno tolto qualche vincolo. Non dobbiamo più girare con un pezzo di carta in tasca che traccia in anticipo io nostro itinerario: luogo di partenza, luogo di arrivo,. Pronto al controllo. Possiamo anche incontrarci con gli amici, sederci ad un tavolo di un ristorante o di un bar oppure andare a casa loro. Possiamo anche andare in un negozio a comprare un vestito nuovo per l’estate. Dunque, posiamo rifare quei gesti e quelle azioni che, fino a tre mesi fa ci sembravano tanto normali da non farci neppure caso? No. Proprio no. In teoria siamo passati da bambini ad adulti. Ai bambini si impone. Si impone di stare a casa, si impone di fare la spesa nel raggio di 200 metri, si impone di non vedere gli amici o di prendere un caffè al bar. Agli adulti si danno consigli e regole: puoi muoverti ma.,., da solo o in compagnia, ma…, puoi frequentare locali pubblici e negozi, ma… Quanti ma! All’aperto non ti obbligo a portare la mascherina ma…ma te lo consiglio. Puoi uscire con gli amici ma…ma devi stare almeno a un metro, anche se gli epidemiologi consigliano due metri. Puoi andare al ristorante ma…ma fra te e chiunque altro ci deve essere almeno un metro, anche se gli epidemiologi consigliano due metri. Insomma tutto sarà così, condito di ma, di forse, di stai attento, di prendere precauzioni. Insomma la politica ci ha dato più libertà di quella consentita e consigliata dalla scienza. Và, dice la politica, ma prendi più precauzioni di quante necessarie per seguire le mie prescrizioni, perché ho dovuto cedere all’economia. È un azzardo ha detto Conte, sta a tutti noi far sì che non torni la tragedia. Se non fai più di quello che ti chiedo corri grossi rischi. È la prima volta che il Governo deflette dalla linea che si era imposto da quel fatidico 21 febbraio. I risultati fra 15/20 gg. Regioni-Stato 4 a 0.
C’è un altro pensiero che spesso mi torna in testa. Vi ricordate a gennaio? Guardavamo distrattamente una città lontanissima, di 11 milioni di abitanti, mai sentita prima, trasformata in un immenso ospedale dove la gente moriva a grappoli, dove la gente era obbligata a stare in casa. I soliti cinesi che mangiano topi e pipistrelli, disse qualcuno; roba impensabile da noi. Poi due turisti cinesi si ammalarono a Roma e cominciammo a guardare con sospetto tutti i cinesi che, nello stivale italico, son parecchi. Sì giunse anche alle mani, qualche cinese fu picchiato per il solo fatto di esser cinese. Ma la cosa non riguardava noi italiani, qui siamo al sicuro, dicevamo, gli unici due malati, cinesi, mica italiani, sono chiusi in ospedale, continuiamo a goderci la vita. La mia vita cambiò pochissimi giorni dopo il 21 febbraio. Ero a New York e l’Italia è l’estrema periferia dell’impero; le notizie arrivano subito ma .non tutti le ascoltano. Ma…ma…ma le cose cominciarono a cambiare nei giorni successivi. Giravo come un turista nell’immenso melting pot della grande mela, ma…ma qualcosa cambiava. Diventavo sempre più cinese. Mi ero abituato alla piacevole accoglienza e simpatia suscitata fra la gente dal dichiararmi italiano. Sì, posso testimoniare che è vero. Essere italiano suscita simpatia nell’interlocutore, ma già dal 24/25 febbraio il sorriso del mio interlocutore americano lasciava il posto dapprima ad uno stupore, poi a un frettoloso saluto e ad un rapido passo indietro. Ero come un cinese in Italia appena in mese prima. Il massimo fu raggiunto il 26 febbraio quando Trump in un “breaking news” volle rassicurare gli americani che il Coronavirus non sarebbe mai arrivato negli States e che sarebbe rimasto confinato in Cina e in Europa dove alcuni Stati se la stavano vedendo brutta, come l’Italia, verso la quale stava pensando di sospendere i voli. Ecco, io turista italiano ero diventato come l’untore cinese. Meno male che avevo l’aereo il giorno dopo. Passai le ultime 24 ore fra un grande museo e la casa che amorevolmente mi ospitava. Ho fatto solo in tempo a vedere qualche stretta di mano abortita e ritirata, qualche passo indietro, aiutato dal fatto che, almeno, non ho quei tratti somatici caratteristici che, qui in Italia, ci facevano riconoscere subito i cinesi. Mi è andata bene, ma ho fatto in tempo a veder spuntare qualche mascherina a New York. Come sembra strano. La Cina ora è virus free, noi cominciamo a uscire dal guscio protettivo e New York è ancora nel pieno del buco nero, insieme a Paesi, come Russia e Brasile che, fino a 20 giorni fa godevano della loro fortuna di non essere stati toccati da questo essere tanto microscopico quanto pericoloso. Non so che pensare. No, non penso alla ruota che gira, penso alla sofferenza di questo mondo egoista che, nel momento del bisogno ha bloccato respiratori e mascherine alla frontiera, anche appropriandosi di merce semplicemente in transito, di Paesi che “prenotano” a suon di miliardi “tutte” le dosi del primo vaccino disponibile, di Stati che fanno a gara, qui in Europa, per diminuire l’entità del Fondo che deve servire a quegli Stati meno fortunati che di quei soldi hanno un disperato bisogno. Ho paura che la morale di tutta questa pandemia sarà il motto “ME FIRST!!!” Ma ho tanta voglia di sbagliare.
Quel giorno a New York. Come sembra lontano. Eppure son passati solo 79 giorni, o 78? Era il 26 febbraio di quest’anno, il 2020. No, non successe nulla di particolare. Purché lo si giudichi con gli occhi di allora. Mi sembra di vivere uno di quei film post-apocalittico, tipo “Io sono leggenda” o uno della serie “The Day After” o “The Day After Tomorrow” nei quali i protagonisti hanno ben chiaro in testa i luoghi come erano pochi mesi prima, vedono come sono ora, ma sanno che una grande cesura è avvenuta. 78 o 79 giorni e nulla è più come prima. Eppure vedo le immagini in TV: Times Square è identica, nessun grattacielo si è sbriciolato, vedo le classiche immagini dei tombini da cui sbuffa il vapore sotterraneo. Ma alle immagini in TV manca qualcosa di cui 78 (o 79?) giorni fa sentivo fortissima la presenza. Manca il tratto distintivo della Grande Mela, della città che non dorme mai. Manca la gente. Manca la folla che quel 26 febbraio mi avvolgeva, insieme sorridente e spedita, di corsa, in bici, in monopattino, sullo skateboard. Ecco, la folla, la gente di New York è la cosa che più mi ha colpito Sono abituato ad una città affollata, Roma, piena di turisti come New York. Ma la sensazione è completamente diversa. Non so perché a Roma la gente pare sempre incazzata, non ti sorride mai, se ti urta, ti manda pure affanculo; a New York il fiume di folla in movimento ti spinge a sincronizzarti con il flusso. Se c’è un contratto non manca mai il “Sorry..” ed un sorriso. Ora questa folla gioiosa non c’è più, le strade deserte, orfane dei turisti, vedono qualche frettoloso passante che cerca il più vicino negozio di alimentari per ritirarsi subito all’interno dei palazzi. Sì, anche qui in Italia c’è stata la stessa roba: lockdown, mascherine e guanti di lattice (se li trovavi), uguale, ma diverso, la folla, il fiume di gente che si muove sta a New York come il Colosseo a Roma, è il suo simbolo, il suo tratto distintivo e vederla ora così in TV stringe il cuore. Come nei film e romanzi post-apocalittici, chiudo gli occhi e ricordo quello che avvenne solo 78 (o 79?) giorni fa. Il bianconero di oggi si accende degli sfavillanti colori di una giornata di sole tiepido, inconsueta per febbraio. E tornano alla mente le bianche spirali del Guggenheim Museum con una mostra sulle campagne e sul loro recupero, anche due sale dedicate al “modello Riace”. Sì, il nostro Riace con foto e video e cartelloni che spiegavano in modo entusiasta il melting pot creato da Mimmo Lucano, indicato ad esempio di riqualificazione di borghi spopolati dall’urbanizzazione. E i ricordi proseguono con la colorata Little Italy, con le inconfondibili insegne con nomi e prodotti nostrani, magari stroppiati dalle quarte quinte generazioni che dell’ Italia conoscono solo quello che vedono alla TV. E, spesso, da un negozio dall’insegna italiana spunta un volto con gli occhi a mandorla. Chinatown si sta mangiando Little Italy, magari conservandone le insegne che attirano turisti. Il ricordo continua con l’hot dog e Coca-Cola mangiato e bevuta al sole si una panchina del Pier 17, dove gli antichi velieri del più vecchio porto di New York puntano con la prora i giganteschi grattacieli di vetro. Ma accanto, verso Fulton street potete trovare in uno dei vecchi magazzini in mattoncini rossi il nuovo negozio di scarpe di Sarah Jessica Parker. I vecchi dock sull’ East River sono diventati i nuovi luoghi cool di New York. Mentre scrivo mi sto appassionando al gioco del ricordo. Sì, quel giorno a New York fui felice perché con i miei occhi vidi quel che avevo prima visto solo in TV: Greenwich Village. Sì, proprio come lo immaginavo, tanti giovani, seduti, sdraiati sull’erba: futuri manager, futuri imprenditori il cui scopo del momento era solo quello di mangiare, seduti nel parco, un pezzo di pizza in quella insolita giornata di sole tiepido. Anche nel ricordo, ho nostalgia del flusso. L’ultimo ricordo di quel giorno a New York è la decisione di non prendere la metropolitana e farmi tutti i chilometri di Broadway Street facendomi portare dal flusso della folla, flusso che, nel ricordo, vorrei definire quasi gioioso, conscio di essere nell’ombelico del mondo. Poi riapro gli occhi, scosso dalla sigla del TG e dalle notizie che da quell’ombelico vengono. La più importante città della più importante nazione del mondo sforna morti a migliaia e il trend è ancora in salita. Le immagini mostrano Times Square deserta. Non reggo. Chiudo la TV e mi rifugio nel ricordo di quel giorno a New York sicuro che la folla, il suo flusso e il suo sorriso torneranno come quel giorno di febbraio 2020.