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Il Governo si è reso conto che, anche se per un puntiglio giuridico ha ragione, la guerra alle ONG è politicamente perdente. Ieri ha dato l’ok per lo sbarco di tre navi ONG in Porti italiani. Tutto bene? Il Governo è rinsavito?.

Manco per niente. Il Governo si vergogna della concessione del Porto sicuro che è stato costretto ad assegnare.

In Particolare per la Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere, il Governo, con la stupida scusa che fra i migranti c’erano minori, ha vietato ogni ripresa radiotelevisiva allo sbarco, in modo di non fornire copertura mediatica dell’avvenimento: insomma, lo sbarco c’è stato ma non si è potuto vedere, quindi, NON C’E’ stato. Occultamento della realtà si chiama.

Oltre all’annuncio del divieto sui maggiori giornali, c’è stato anche il formale comunicato stampa della Prefettura:

Ovviamente finito lo sbarco , l’area portuale è tornata di libera circolazione

Insomma una nave senza storia, senza drammi umani, una semplice nave alla fonda che provvede alla manutenzione d’uso.

Di migranti neppure l’ombra….

La storia continua

Questo post non è molto semplice, ma da giorni, i media continuano a parlare di migranti, di ONG, di porto sicuro, di zone SAR spesso a sproposito facendo confusione fra le diverse norme che regolano la materia ed aumentando la confusone in chi ascolta.

Comprendo che – vista la complessità delle norme – un quotidiano, un servizio TV non possa scendere negli aridi particolari di convenzioni internazionali, ma a chi dare ascolto, alle ONG o al Governo?

              Qui sembra di essere nel film “il giorno della marmotta”, imprigionati in un loop temporale che ci riporta a quattro anni fa, con le navi ONG respinte dai nostri porti, il divieto di barco, la Carola Rakete che forza il blocco, una nave mandata in altro Paese (allora fu la Spagna) i migranti che, alla fine sbarcano tutti. I nomi delle navi cambiano, sostanza e le leggi del mare sono sempre le stesse.

E tre anni fa, per un mio libro [qui il link: https://www.amazon.it/dp/1080713832 ] feci una ricerca sulle fonti che regolano il soccorso in mare e lo sbarco. Le norme, sia pur complicate, non sono cambiate. Cerco di presentarle nel modo più chiaro possibile.

Anticipo le conclusioni per chiarezza. Le norme in materia sono praticamente tutte di derivazione ONU, l’Unione europea centra poco e nulla. Sono frutto di convenzioni internazionali e necessariamente, per trovare l’accordo di più di cento Paesi non sono un esempio di chiarezza. Se sono estremamente chiare sull’obbligo generalizzato di soccorso, non lo sono altrettanto sull’obbligo di indicazione del porto sicuro se la nave che interviene non batte la stessa bandiera del Paese ove intende operare lo sbarco o se la nave non è coordinata da un Paese nella zona SAR di competenza.

Come al solito, per chi volesse approfondire, ogni documento citato ed ogni avvenimento è linkato (in colore blu) alla fonte: chi volesse, può farsi, scaricando i documenti, una biblioteca delle fonti.

La normativa internazionale sul soccorso e sullo sbarco.

La legge nazionale (Codice della Navigazione) non detta particolari norme, tranne quella più volte ripetuta dell’obbligo di soccorso (artt. 69 e 70). Forse più utile la noma contenuta nell’art. 4 “Le navi italiane in alto mare e gli aeromobili italiani in luogo o spazio non soggetto alla sovranità di alcuno Stato sono considerati come territorio italiano”. Insomma i migranti/naufraghi che salgono in acque internazionali su nave italiana, sono già sul territorio italiano.  Ma qui il casus belli non sono le navi battenti bandiera italiana.

La materia del soccorso è comunque regolata da Convenzioni internazionali. So, per esperienza, che quanti più contraenti partecipano alla negoziazione di un testo, questo si annacqua e si complica sempre di più per soddisfare le diverse e spesso opposte esigenze dei partecipanti.

Una volta si predicava il mare come territorio libero da leggi, ma dopo il Titanic qualcosa si mosse e, nel 1914, la prima Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (nota anche semplicemente come SOLAS, acronimo di Safety of life at sea) fu firmata a Londra. Successive modifiche furono apportate nel 1948 e nel 1960 .Una nuova versione della convenzione fu approvata nel 1974, entrando in vigore nel 1980, sotto l’egida dell’IMO, agenzia delle Nazioni Unite.

Già la Convenzione SOLAS al Cap. V, regola 10 (pag. 143 del link) stabiliva che “Il comandante di una nave in navigazione che riceve un segnale da qualsiasi provenienza indicante che una nave o un aereo o loro natanti superstiti si trovano in pericolo, è obbligato a recarsi a tutta velocità all’assistenza delle persone in pericolo informandole, se possibile, di quanto sta facendo. Se non può farlo, o, nelle circostanze speciali in cui si trova, giudica non ragionevole né necessario andare in loro soccorso, egli deve riportare sul giornale di bordo le ragioni che lo hanno indotto a recarsi a soccorrere le persone in pericolo.”

La Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare (cd. Convenzione di Montego Bay) o UNCLOS, acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea, fu approvata nel 1982 ed entrò in vigore nel 1990. Fu recepita dall’Unione europea nel 1998 (per l’atto di recepimento e il testo della convenzione clicca qui). La Convenzione di Montego Bay all’art. 98 (pag. 27 della G.U delle Comunità europee in questo link) stabilisce che “1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e quale è il porto più vicino presso cui farà scalo. 2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali

Queste Convenzioni stabiliscono gli obblighi di ricerca e soccorso (SAR), ma nulla stabiliscono circa il destino e lo sbarco dei naufraghi imbarcati. Il perché è molto semplice: il fenomeno dei boat people e del loro salvataggio (tranne l’episodio vietnamita del 1976) specialmente da parte di Nazioni riottose alla loro accoglienza, è recente e limitato al tratto del Mediterraneo Libia – Italia.

La Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo  di Amburgo (cd. Convenzione SAR, acronimo di search and rescue) fu siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrò in vigore il 22 giugno 1985 (qui il testo sottoscritto nel 1979) (e qui il testo in italiano, da pag.32 del link all’Atto Senato di Ratifica). E’ un accordo internazionale elaborato dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), volto a tutelare la sicurezza della navigazione mercantile, con esplicito riferimento al soccorso marittimo. (qui il testo completo vigente, a pag. 426).

Molte le novità riguardanti il soccorso: nelle definizioni, ad esempio, si anticipa allo “stato di pericolo” l’obbligo di soccorso; ma, soprattutto, il mare viene diviso in zone SAR per le quali ogni Paese è responsabile delle operazioni di soccorso ed è tenuto al suo coordinamento; viene anche stabilito che un “centro di coordinamento” che ha notizia di una situazione di pericolo, ma non sa se il centro di coordinamento competente sia stato allertato o abbia iniziato le operazioni di soccorso, deve predisporre i mezzi per intervenire.

La convenzione fu modificata due volte: la prima volta nel 1998 con la risoluzione MSC.70 (69) e la seconda volta nel 2004 con la risoluzione MSC.153 (78) e con la risoluzione MSC.155 (78)

Con queste modifiche, oltre a ribadire l’obbligo del soccorso in caso di naufragio, esteso stavolta anche al caso di “pericolo di naufragio” (“distress”), viene esplicitamente stabilito che le persone salvate devono essere sbarcate in un “posto sicuro” (place of safety) e che il coordinatore delle operazioni, ossia il titolare della zona SAR in cui è avvenuto l’evento, deve indicare (ovviamente sul suo territorio) il porto di sbarco più appropriato.

Su questo ultimo punto bisogna aggiungere che Malta non ha mai voluto sottoscrivere  (vedasi nota a pagina 435 del link) i Capitoli II, III e IV della Risoluzione emendativa MSC.155(78) per cui non si è mai impegnata, come Ente coordinatore delle operazioni di soccorso, ad indicare il porto di sbarco sul suo territorio.

Su tale punto una interessante riflessione del Consiglio Nazionale forense che riassume la ingarbugliata questione del “place of safety” delle Convenzioni internazionali e la mancata sottoscrizione di alcuni Paesi, fra i quali Malta, delle ultime norme della Convenzione di Amburgo.

Successivamente alla Convenzione SAR, l’IMO, in collaborazione con l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (ICAO), ha predisposto il Manuale internazionale di ricerca e soccorso aero marittimo, noto come Manuale IAMSAR (International Aeronautical and Maritime Search and Rescue Manual).

Lo stato di tutte le Convenzioni sulla salvaguardia della navigazione e delle vite in mare può essere trovato sul sito dell’IMU, cliccando qui.

Sugli obblighi che competono agli Stati sul soccorso in mare è interessante il parere del Prof. Umberto Leanza, uno di maggiori esperti della materia e a lungo consulente del Ministero degli esteri, raccolto da un suo intervento del 2015.

Questo è il quadro normativo, da cui discendono parecchie conseguenze e si comprendono molte situazioni passate e presenti.

Conseguenze pratiche nell’attuazione delle Convenzioni

L’Italia, con l’operazione  Mare nostrum ,  (dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014)  voluta dal Governo dopo il naufragio e la morte di oltre 360 migranti il 3 ottobre 2013 davanti Lampedusa e fino all’Operazione  Sophia del 2015, ha assunto, per sua volontà, il ruolo di coordinatore dei soccorsi e quindi, per la Convenzione di Amburgo, al nostro Paese è sempre toccato l’obbligo di indicare il porto sicuro. Ricordo che l’operazione Sophia fu, per la prima volta, una operazione dell’Unione europea la cui terza fase, ingresso in territorio libico e creazioni di hot spot in loco, non è stata mai attuata per l’assenza di un interlocutore credibile in Libia e la conseguente mancanza di risoluzione ONU che autorizzasse l’ingresso di forze estranee in territorio di un altro Paese.

Nel 2017 fu stipulato fra Italia e Libia un accordo di “cooperazione” in materia migratoria. In cambio di aiuti economici e di forniture militari, la Libia, allora guidata dal primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj, si impegnava a pattugliare la sua immensa zona SAR, a soccorrere i naufraghi partiti dal proprio territorio e a ricondurli indietro. La Libia diveniva così coordinatore della sua Zona SAR, con tutti gli obblighi connessi. L’accordo fu fortemente criticato perché riconduceva i migranti nei lager libici ove erano soggetti ad ogni tipo di vessazioni tanto da far dichiarare la Libia “Paese non sicuro” per lo sbarco dei migranti da arte dei paesi EU. L’accordo fu rinnovato automaticamente nel febbraio 2020 per tre anni

Malta spesso non risponde alle richieste di soccorso; quando lo fa, forte della non sottoscrizione della modifica MSC.155(78) che impone l’indicazione del porto sicuro allo Stato coordinatore, porta viveri e soccorso alle imbarcazioni in difficoltà ma non fa sbarcare i profughi sul proprio territorio, tranne i feriti, malati e i soggetti fragili (che rientrano nella nozione di soccorso). Malta ha, dalla sua, l’estensione veramente ridotta del suo territorio. (superficie 316 Kmq e densità 1.318 ab./Kmq contro i 302.000Kmq. e 199 ab/Kmq. dell’Italia.) Insomma l’effetto dello sbarco di 1000 migranti/naufraghi in Italia è comparabile con quello di 1 a Malta.

Dopo Sophia è cominciato il “ritiro” entro le nostre acque territoriali delle imbarcazioni italiane della Guardia di Finanza, militari e delle Capitanerie di porto, una volta, con “mare nostrum” sempre impegnate in operazioni SAR in alto mare, per “non essere coinvolte” in salvataggi che avrebbero comportato l’attribuzione di Paese coordinatore al nostro Paese. Si è tornati alla situazione antecedente a “Mare nostrum”, quando i mezzi di soccorso partivano dai nostri porti solo dopo essersi assicurati che la competenza non fosse di qualcun altro e che il naufragio era prossimo.

Come si vede, da tutto questo quadro restano fuori le ONG che, con le loro navi, battono il Mediterraneo alla ricerca di possibili naufragi. Molto si è detto sul loro ruolo, da angeli salvatori a complici di trafficanti.

Restano fuori perché, semplicemente, dalle convenzioni internazionali il caso di soggetti privati, non coordinati da uno Stato titolare di zona SAR, salvo l’obbligatorietà del soccorso, non è contemplato nelle competenze sulla indicazione del porto di sbarco. Un buco normativo.

Personalmente, e lo dice anche la magistratura, non penso ad un accordo trafficanti-ONG, ma checché ne dica Roberto Saviano, la presenza delle navi ONG, senza regole, entro i confini delle acque territoriali libiche un effetto lo ottiene. Se gli scafisti sanno che, poche miglia al largo c’è una nave che accoglie i migranti senza far domande, magari permettendo loro di riprendersi i motori ed i telefoni satellitari e di usare invece delle barche in legno gli economici gommoni made in Cina acquistati su Ali Baba; se sanno che la traversata deve durare 5 miglia invece delle 180 che separano la Libia da Lampedusa, si attrezzano diversamente e molto più economicamente.

Per ricondurre le ONG sotto l’egida del coordinamento fra Stati, dettata dalla Convenzione di Amburgo, l’allora ministro dell’interno Marco Minniti, varò un Regolamento che, pena l’esclusione dalle operazioni di soccorso le ONG dovevano sottoscrivere. Tredici i punti:

  • Non entrare nelle acque libiche, “salvo in situazioni di grave ed imminente pericolo” e non ostacolare l’attività della Guardia costiera libica.
  • Non spegnere o ritardare la trasmissione dei segnali di identificazione.
  • Non fare comunicazioni per agevolare la partenza delle barche che trasportano migranti.
  • Attestare l’idoneità tecnica per le attività di soccorso. In particolare, viene chiesto alle ong anche di avere a bordo “capacità di conservazione di eventuali cadaveri”.
  • Informare il proprio Stato di bandiera quando un soccorso avviene al di fuori di una zona di ricerca ufficialmente istituita.
  • Tenere aggiornato il competente Centro di coordinamento marittimo sull’andamento dei soccorsi.
  • Non trasferire le persone soccorse su altre navi, “eccetto in caso di richiesta del competente Centro di coordinamento per il soccorso marittimo (Mrcc) e sotto il suo coordinamento anche sulla base delle informazioni fornite dal comandante della nave”.
  • Informare costantemente lo Stato di bandiera dell’attività intrapresa dalla nave.
  • Cooperare con il competente Centro di coordinamento marittimo eseguendo le sue istruzioni.
  • Ricevere a bordo, su richiesta delle autorità nazionali competenti, “eventualmente e per il tempo strettamente necessario”, funzionari di polizia giudiziaria che possano raccogliere prove finalizzate alle indagini sul traffico.
  • Dichiarare le fonti di finanziamento alle autorità dello Stato in cui l’ONG è registrata.
  • Cooperazione leale con l’autorità di pubblica sicurezza del previsto luogo di sbarco dei migranti.
  • Recuperare, “una volta soccorsi i migranti e nei limiti del possibile”, le imbarcazioni improvvisate ed i motori fuoribordo usati dai trafficanti di uomini.

Solo alcune ONG accettarono gli impegni. Le altre continuarono la loro attività sentendosi vincolate – a loro dire – solo dall’obbligo di salvataggio in mare, restando lo sbarco un “problema di altri”.

D’altronde hanno poca scelta. Se il punto di raccolta è vicino alle coste libiche, in assenza di uno Stato coordinatore, i Paesi papabili “sarebbero” Libia, Tunisia, Malta e Italia.

La Libia non è più un Paese sicuro. La Tunisia è un paese sicuro per i vacanzieri e per i tunisini ma non lo è per i migranti/naufraghi. Quello Stato non ha una completa normativa sull’asilo e spesso le persone sbarcate vengono restituite alla Libia. Di Malta abbiamo detto. “Rimarrebbe” l’Italia.

Ho usato due volte il condizionale perché secondo la lettera delle Convenzioni, Malta e Italia, non essendo Paesi coordinatori e non essendo avvenuto il naufragio nelle rispettive zone SAR, hanno gli stessi obblighi di indicare il porto sicuro di Grecia, Spagna e Francia.

Purtroppo qui tutti gli attori hanno qualche ragione e, purtroppo, i conseguenti bracci di ferro vengono giocati sulla pelle dei naufraghi/migranti, persone che spesso non hanno mai sentito parlare di SAR, porto sicuro, Convenzione di Amburgo, SOLAS etc.

Insomma, per farla breve, Una nave ONG non coordinata da nessun titolare di zona SAR, salva, perché ha l’obbligo giuridico di farlo, persone in procinto di naufragare in zona SAR libica, può rifiutarsi di cedere queste persone ai libici perché la Libia non è un “place of safety”? Secondo me sì, per salvaguardare la concatenazione di eventi (“ricerca” – “salvataggio” – “sbarco in luogo sicuro”).

Ma, una volta prese le persone a bordo, dove deve dirigersi, in assenza di un Ente coordinatore? In un porto sicuro, sembrerebbe dalla lettura delle Convenzioni. Ma le Convenzioni delegano l’ente coordinatore ad indicare il porto sicuro che, in questo caso non c’è.  D’altronde, scartando la Libia perché è ormai un “non Stato” ben poco sicuro, scartando la Tunisia perché essa è porto sicuro per i turisti e per i tunisini ma non per gli altri profughi che, se partiti dalla Libia, spesso alla Libia verranno restituiti dalla Autorità tunisine, scartando Malta che non ha sottoscritto gli accordi del 2004 sullo sbarco dei migranti, secondo le ONG non resterebbe che l’Italia…. E se l’Italia vieta l’accesso sanzionando Capitano ed armatore per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina?

Mi sovviene che le convenzioni internazionali ratificate hanno un rango sovraordinato a quello delle leggi. E mi sovviene che l’articolo 51 del codice penale dispone  che: ”L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità” e che l’art. 54, sempre del Codice penale, dispone che “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”.

Per quanto riguarda il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, rilevo che, prima di comminare le pene, il reato abbisogna di una sentenza definitiva di un magistrato che lo acclari come tale.

In tutto questo l’Europa? Ma non esiste una unica Europa. La Commissione ci ha provato con le Decisioni del 2015, il Parlamento europeo ci ha provato con l’approvazione di una ottima revisione del Regolamento di Dublino. Chi bara, e bara pesantemente, è il Consiglio, ossia l’insieme dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri che, puntualmente, chiusa con 6 miliardi di Euro alla Turchia la rotta balcanica, ritiene che il problema riguardi solo l’Italia e che, quindi, non sia un problema.

Devo dire però, per verità di narrazione, che circola sui tavoli di Bruxelles un documento denominato “COMMISSION STAFF WORKING DOCUMENT For the Council Shipping Working party IMO -Union submission to be submitted to the 7th session of the Sub-Committee on Navigation, Communication and Search and Rescue (NSCR 7) of the IMO in London from 15-24 January 2020 setting out a preliminary draft structure and proposal for a revision of the Guidelines on places of refuge for ships in need of assistance, annexed to resolution A.949 (23)” laddove a pagina 26, (appendice 1 alla sezione 4) si dice che:”Deciding which coastal State’s competent authority to be in the lead. If a PoR is requested when no SAR operation has taken place, the deciding factor should be the Maritime Assistance Service (MAS) declared by the state in whose area of jurisdiction the shipis located. If there is no MAS declared, in the first instance the State with jurisdiction over the waters in 27which the ship is located (eg. through a declared EEZ) should co-ordinate the PoRrequest unless and until an agreement has been reached to transfer coordination to another coastal state”.

Quindi, se la mia traduzione è esatta, quando non c’è una zona SAR di riferimento, il PoR (Place of Refuge) viene spostato allo Stato che ha ricevuto la relativa richiesta e nella cui zona SAR si trova la nave. Pertanto il vuoto normativo sarebbe colmato.

Sinceramente non so se e quando questa “proposta” diventerà norma cogente, o se lo sia già diventata.

Conclusioni

Come abbiamo visto, se il soccorso è un obbligo, più controverso è chi debba indicare il porto sicuro. Una indicazione gravida di conseguenze. Se uno Stato membro acconsente allo sbarco dei migranti si assume la responsabilità di vagliare le domande di protezione internazionale, di accogliere chi ha diritto alla protezione (Regolamento di Dublino) e di espellere chi non ne ha diritto. Ed è proprio quest’ultimo il punto nodale. Se gli Stati EU accettano la redistribuzione dei migranti eligibili per la protezione internazionale non altrettanto accettano chi non ne ha diritto. Le espulsioni sono difficili, non solo per l’Italia (vedi il mio post sulla difficoltà delle espulsioni). Ma questa è un’altra storia che racconterò un’altra volta.

Ricordo che una panoramica complessiva del fenomeno può esser trovata nel mio libro “L’Unione europea, l’immigrazione e l’asilo: Dal Vento di Tampere alla Sea Watch” disponibile su Amazon sia in versione Ebook sia in versione cartacea a questo link https://www.amazon.it/dp/1080713832.

Ma come è cominciato tutto ciò? Viviamo in una atmosfera intrisa di rancore ed odio. Non facciamo altro che cercare il “nemico”. Anche nella quotidianità. Può essere l’auto avanti a noi che esita al semaforo per provocare un concerto di clacson risentiti. Può essere la signora anziana che rallenta la fila alla cassa del supermercato.

Oppure sentiamo un disperato bisogno di affermazione calpestando le regole. Buttando spazzatura indifferenziata nel cassonetto dell’organico oppure posteggiando in seconda fila per andare al bar: rivalsa! Rivalsa contro cosa? Non lo sappiamo. Vediamo sempre più il nostro prossimo se non come nemico, come rivale e concorrente. Ma rivale per cosa?

Quello che si vede è la caccia al diverso, indicato come “responsabile del malcontento”: può essere il cittadino italiano al quale viene assegnata una casa popolare, ma solo perché è di etnia rom scatena la rivolta delle periferie. Ma può essere anche una bambina dall’impermeabile giallo che ci ricorda i nostri sbagli ambientali e che la Terra sta perdendo la pazienza.

Ma come è cominciato tutto ciò? Dove e quando si è accesa la scintilla così ben alimentata a fini elettorali e politici?

Ci è sfuggito quel momento? Dove e quando è iniziato tutto? Qual è stato l’avvenimento, il fatto rimasto silente per un pezzo, ingrandendosi di nascosto, fino a scoppiare solo ora?

Io una idea ce l’avrei. Forse sbaglio, forse no. So che prendendo quel momento come inizio, mi attirerò le critiche di molti. Perché è un evento che, in sé, fa molto onore all’Italia, ma fu pessimamente gestito.

Mi riferisco a quello che accadde dopo il 3 ottobre 2013. Quel giorno – era un giovedì – una imbarcazione, carica di migranti, si rovesciò a poche miglia da Lampedusa. Morirono in 366, ma alcuni superstiti raccontarono che sul barcone erano in oltre 500.

Non era la prima volta che migranti morivano in un naufragio, ma il numero dei morti e la vicinanza alle coste italiane fecero la differenza.

Era l’ottobre del 2013, da pochi mesi era in carica il Governo Letta alle prese con il difficile compito di allontanare lo spettro del default italiano, già intrapreso da Monti. Le elezioni politiche del febbraio 2013 non è che avessero fornito un risultato molto chiaro. Tanto poco chiaro che ricordiamo fatti “strani” come le consultazioni “in streaming” con i Cinquestelle e Bersani e l’inusuale richiesta di tutti i partiti al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di farsi rieleggere perché il Parlamento non trovava un accordo sul suo successore. Sergio Mattarella fu, infatti eletto il 3 febbraio 2015.

Situazione confusa e Governo molto debole. Il Governo Letta, infatti, fu quasi un altro governo di solidarietà nazionale, con la partecipazione di molte, e diverse fra loro, forze politiche per trovare i numeri della necessaria maggioranza: Partito Democratico, Popolo della Libertà (con scissione nel novembre 2013 con la componente alfaniana NDC che rimase nel Governo), Scelta Civica, Popolari per l’Italia, Unione di Centro, Radicali e indipendenti (per la composizione clicca qui).

Ottobre, poi, è un mese in cui il Parlamento è impegnato nella difficile composizione e approvazione della “legge di stabilità” che, per uscire dalla crisi portava nuove tasse.

Insomma, un panorama cupo. Ci voleva qualcosa che risollevasse gli animi, qualcosa di positivo, qualcosa che facesse battere all’unisono i cuori degli italiani; qualcosa che, dopo le frustate dell’Unione europea, i rischi di default come la Grecia, ci facesse dire “COME SIAMO BRAVI!”

Il 5 ottobre 2013, era un sabato, a Palazzo Chigi si svolse una riunione con i massimi vertici del Governo accompagnati da una telefonata dal Vaticano al cattolico Letta di “far qualcosa” per frenare le morti in mare.

E la soluzione, bella, originale, piena di “amore” per il prossimo fu trovata: non aspetteremo più i migranti sulle nostre coste, li andremo a cercare in alto mare. La linea di soccorso si spostava dalle nostre coste in mare aperto, alla ricerca dei barconi dei migranti. Lì nacque l’idea di “Mare nostrum”, una operazione navale, condotta dall’Italia in solitario, per mostrare all’Europa come manifestare solidarietà concreta a chi fugge da guerre e persecuzioni.

Più di 100.000 persone furono salvate dalle nostre navi prima che, dopo un anno, l’operazione divenisse europea.

Un’operazione che ci fa onore e che, all’inizio, sollevò i previsti e cercati entusiasmi: l’Italia, Paese circondato dal Mediterraneo, da solo, offre le sue navi e i suoi uomini per salvare i profughi.

Sono convinto ancora della bontà e della necessità di Mare nostrum: non si possono lasciare morire in mare le persone, anche se queste intendono entrare, non invitare, nel nostro Paese.

Ma se le operazioni di soccorso furono un grande successo, altrettanto non si può dire per ciò che venne dopo i soccorsi. L’accoglienza non fu all’altezza. Per diversi motivi.

Innanzitutto i numeri: se nel 2013 le persone sbarcate/salvate furono 42.925, nel 2014 furono 170.100, nel 2015 furono 153.842, nel 2016 furono 181.436, nel 2017 furono 119.310. (fonte: ISMU su dati Ministero interno).

  1. L’insufficiente numero degli organi deputati a riconoscere chi, fra gli sbarcati/salvati avesse diritto alla protezione. Numero ampliato solo successivamente.
  2. L’aiuto pari a zero dell’Unione europea che si trincerò dietro le convenzioni internazionali, come i Trattati IMO e il “famigerato” quarto protocollo del 2004 (mai sottoscritto da Malta) che impone a chi coordina le operazioni di soccorso (sempre l’Italia, sia per Mare nostrum , sia per le successive Triton e Sophia in ambito UE) di indicare il porto di sbarco (ovviamente sul suo territorio).
  3. La nazionalità degli sbarcati: la maggior parte proveniva da Paesi che non rispondevano ai criteri stabiliti dall’Unione europea per il riconoscimento della protezione internazionale o per la rilocazione prevista da due Decisioni UE e questa: essere di una nazionalità che abbia almeno il 75% dei riconoscimenti di protezione. Questo requisito era appannaggio sol dei siriani, irakeni, eritrei. E negli sbarchi/salvataggi le nazionalità predominanti erano, e sono, nigeriani, marocchini, tunisini, ivoriani, etc.
  4. La estrema difficoltà a “rimandare a casa” chi non ha diritto alla protezione internazionale: le espulsioni sono molto molto difficili: necessitano di un “riconoscimento diplomatico” delle autorità del Paese di origine. E queste Autorità ben di rado collaborano, e non solo in Italia.
  5. L’uso, un po’ “disinvolto” del permesso umanitario, permesso nazionale, non UE, spesso dato a chi, pur non avendo diritto alla protezione internazionale, appariva una “brava persona” suscettibile di integrazione o, al contrario di praticamente impossibile espulsione [Grande cuore italico]

I richiedenti asilo ed i “denegati” non espulsi cominciarono ben presto ad essere “visibili”. A costituire un panorama frequente nelle città. Spesso silenzioso, ma talvolta rumoroso, facile preda della malavita e di chi è pronto ad istillare odio indicando il “diverso” come “nemico”.

Sommando gli arrivi ben si comprende come, questa massa di stranieri possa ingenerare un senso di “altro da sé” nella popolazione italiana.

Si è speso pochissimo per la necessità fondamentale, ossia l’integrazione e gli ultimi provvedimenti del Governo gialloverde hanno “tagliato” ancora di più il sistema di integrazione che funzionava, ossia lo SPRAR, trasformando questi stranieri in clandestini in mezzo ad una strada ed aumentando, forse ad arte, la percezione di paura della popolazione verso chi è “diverso”.

Eppure, secondo i demografi, l’Italia avrebbe un disperato bisogno di nuove braccia da lavoro. La popolazione invecchia e la parte produttiva della popolazione diminuisce sempre più. Situazione analoga in Germania, che, però, nel 2015 ha accolto un milione di persone spendendo parecchio per la loro integrazione cercando di formare “nuovi tedeschi”. Noi no.

Noi non abbiamo saputo far di meglio che indicare questi “nuovi arrivati” come il “pericolo pubblico”, fonte di tutti i mali del nostro Paese. Mero calcolo elettorale, ma molto ben riuscito.

E, ormai, si vedono gli effetti. Ultimo, ieri, festa della Repubblica. Ho visto la consueta sfilata in TV. So per certo che molti italiani di pelle nera sono nell’esercito e, specialmente, nei gruppi sportivi. So per certo che tantissime classi scolastiche elementari e medie sono piene di bambini di colore. Ebbene, ieri – posso sbagliare, ma è quello che ho visto – nessun militare di pelle nera ha sfilato, nessun bambino di pelle nera era nelle classi ricevute da Mattarella sul palco durante la sfilata. Un segno dei tempi. Forse, ma un segno molto brutto.

Non so se mi avete seguito. Ho cercato di dimostrare come un gesto bellissimo e rivolto alla solidarietà verso chi, nel mondo, è stato meno fortunato, possa trasformarsi, per impreparazione nel gestirlo e per criminali calcoli politici, in un terremoto del panorama istituzionale italiano, ormai composto solo di litigiosità, di continua ricerca del “nemico”, di confusione e di inadeguatezza al ruolo rivestito.

Vediamo che accade. Vediamo oggi il Presidente del Consiglio Conte cosa dirà.

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Simona Forte photographer

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ALESSANDRA BARSOTTI - FOTOGRAFIE

L'essentiel est invisible pour les yeux

TIRIORDINO

Uno sguardo sul mondo

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