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Ma come è cominciato tutto ciò? Viviamo in una atmosfera intrisa di rancore ed odio. Non facciamo altro che cercare il “nemico”. Anche nella quotidianità. Può essere l’auto avanti a noi che esita al semaforo per provocare un concerto di clacson risentiti. Può essere la signora anziana che rallenta la fila alla cassa del supermercato.

Oppure sentiamo un disperato bisogno di affermazione calpestando le regole. Buttando spazzatura indifferenziata nel cassonetto dell’organico oppure posteggiando in seconda fila per andare al bar: rivalsa! Rivalsa contro cosa? Non lo sappiamo. Vediamo sempre più il nostro prossimo se non come nemico, come rivale e concorrente. Ma rivale per cosa?

Quello che si vede è la caccia al diverso, indicato come “responsabile del malcontento”: può essere il cittadino italiano al quale viene assegnata una casa popolare, ma solo perché è di etnia rom scatena la rivolta delle periferie. Ma può essere anche una bambina dall’impermeabile giallo che ci ricorda i nostri sbagli ambientali e che la Terra sta perdendo la pazienza.

Ma come è cominciato tutto ciò? Dove e quando si è accesa la scintilla così ben alimentata a fini elettorali e politici?

Ci è sfuggito quel momento? Dove e quando è iniziato tutto? Qual è stato l’avvenimento, il fatto rimasto silente per un pezzo, ingrandendosi di nascosto, fino a scoppiare solo ora?

Io una idea ce l’avrei. Forse sbaglio, forse no. So che prendendo quel momento come inizio, mi attirerò le critiche di molti. Perché è un evento che, in sé, fa molto onore all’Italia, ma fu pessimamente gestito.

Mi riferisco a quello che accadde dopo il 3 ottobre 2013. Quel giorno – era un giovedì – una imbarcazione, carica di migranti, si rovesciò a poche miglia da Lampedusa. Morirono in 366, ma alcuni superstiti raccontarono che sul barcone erano in oltre 500.

Non era la prima volta che migranti morivano in un naufragio, ma il numero dei morti e la vicinanza alle coste italiane fecero la differenza.

Era l’ottobre del 2013, da pochi mesi era in carica il Governo Letta alle prese con il difficile compito di allontanare lo spettro del default italiano, già intrapreso da Monti. Le elezioni politiche del febbraio 2013 non è che avessero fornito un risultato molto chiaro. Tanto poco chiaro che ricordiamo fatti “strani” come le consultazioni “in streaming” con i Cinquestelle e Bersani e l’inusuale richiesta di tutti i partiti al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, di farsi rieleggere perché il Parlamento non trovava un accordo sul suo successore. Sergio Mattarella fu, infatti eletto il 3 febbraio 2015.

Situazione confusa e Governo molto debole. Il Governo Letta, infatti, fu quasi un altro governo di solidarietà nazionale, con la partecipazione di molte, e diverse fra loro, forze politiche per trovare i numeri della necessaria maggioranza: Partito Democratico, Popolo della Libertà (con scissione nel novembre 2013 con la componente alfaniana NDC che rimase nel Governo), Scelta Civica, Popolari per l’Italia, Unione di Centro, Radicali e indipendenti (per la composizione clicca qui).

Ottobre, poi, è un mese in cui il Parlamento è impegnato nella difficile composizione e approvazione della “legge di stabilità” che, per uscire dalla crisi portava nuove tasse.

Insomma, un panorama cupo. Ci voleva qualcosa che risollevasse gli animi, qualcosa di positivo, qualcosa che facesse battere all’unisono i cuori degli italiani; qualcosa che, dopo le frustate dell’Unione europea, i rischi di default come la Grecia, ci facesse dire “COME SIAMO BRAVI!”

Il 5 ottobre 2013, era un sabato, a Palazzo Chigi si svolse una riunione con i massimi vertici del Governo accompagnati da una telefonata dal Vaticano al cattolico Letta di “far qualcosa” per frenare le morti in mare.

E la soluzione, bella, originale, piena di “amore” per il prossimo fu trovata: non aspetteremo più i migranti sulle nostre coste, li andremo a cercare in alto mare. La linea di soccorso si spostava dalle nostre coste in mare aperto, alla ricerca dei barconi dei migranti. Lì nacque l’idea di “Mare nostrum”, una operazione navale, condotta dall’Italia in solitario, per mostrare all’Europa come manifestare solidarietà concreta a chi fugge da guerre e persecuzioni.

Più di 100.000 persone furono salvate dalle nostre navi prima che, dopo un anno, l’operazione divenisse europea.

Un’operazione che ci fa onore e che, all’inizio, sollevò i previsti e cercati entusiasmi: l’Italia, Paese circondato dal Mediterraneo, da solo, offre le sue navi e i suoi uomini per salvare i profughi.

Sono convinto ancora della bontà e della necessità di Mare nostrum: non si possono lasciare morire in mare le persone, anche se queste intendono entrare, non invitare, nel nostro Paese.

Ma se le operazioni di soccorso furono un grande successo, altrettanto non si può dire per ciò che venne dopo i soccorsi. L’accoglienza non fu all’altezza. Per diversi motivi.

Innanzitutto i numeri: se nel 2013 le persone sbarcate/salvate furono 42.925, nel 2014 furono 170.100, nel 2015 furono 153.842, nel 2016 furono 181.436, nel 2017 furono 119.310. (fonte: ISMU su dati Ministero interno).

  1. L’insufficiente numero degli organi deputati a riconoscere chi, fra gli sbarcati/salvati avesse diritto alla protezione. Numero ampliato solo successivamente.
  2. L’aiuto pari a zero dell’Unione europea che si trincerò dietro le convenzioni internazionali, come i Trattati IMO e il “famigerato” quarto protocollo del 2004 (mai sottoscritto da Malta) che impone a chi coordina le operazioni di soccorso (sempre l’Italia, sia per Mare nostrum , sia per le successive Triton e Sophia in ambito UE) di indicare il porto di sbarco (ovviamente sul suo territorio).
  3. La nazionalità degli sbarcati: la maggior parte proveniva da Paesi che non rispondevano ai criteri stabiliti dall’Unione europea per il riconoscimento della protezione internazionale o per la rilocazione prevista da due Decisioni UE e questa: essere di una nazionalità che abbia almeno il 75% dei riconoscimenti di protezione. Questo requisito era appannaggio sol dei siriani, irakeni, eritrei. E negli sbarchi/salvataggi le nazionalità predominanti erano, e sono, nigeriani, marocchini, tunisini, ivoriani, etc.
  4. La estrema difficoltà a “rimandare a casa” chi non ha diritto alla protezione internazionale: le espulsioni sono molto molto difficili: necessitano di un “riconoscimento diplomatico” delle autorità del Paese di origine. E queste Autorità ben di rado collaborano, e non solo in Italia.
  5. L’uso, un po’ “disinvolto” del permesso umanitario, permesso nazionale, non UE, spesso dato a chi, pur non avendo diritto alla protezione internazionale, appariva una “brava persona” suscettibile di integrazione o, al contrario di praticamente impossibile espulsione [Grande cuore italico]

I richiedenti asilo ed i “denegati” non espulsi cominciarono ben presto ad essere “visibili”. A costituire un panorama frequente nelle città. Spesso silenzioso, ma talvolta rumoroso, facile preda della malavita e di chi è pronto ad istillare odio indicando il “diverso” come “nemico”.

Sommando gli arrivi ben si comprende come, questa massa di stranieri possa ingenerare un senso di “altro da sé” nella popolazione italiana.

Si è speso pochissimo per la necessità fondamentale, ossia l’integrazione e gli ultimi provvedimenti del Governo gialloverde hanno “tagliato” ancora di più il sistema di integrazione che funzionava, ossia lo SPRAR, trasformando questi stranieri in clandestini in mezzo ad una strada ed aumentando, forse ad arte, la percezione di paura della popolazione verso chi è “diverso”.

Eppure, secondo i demografi, l’Italia avrebbe un disperato bisogno di nuove braccia da lavoro. La popolazione invecchia e la parte produttiva della popolazione diminuisce sempre più. Situazione analoga in Germania, che, però, nel 2015 ha accolto un milione di persone spendendo parecchio per la loro integrazione cercando di formare “nuovi tedeschi”. Noi no.

Noi non abbiamo saputo far di meglio che indicare questi “nuovi arrivati” come il “pericolo pubblico”, fonte di tutti i mali del nostro Paese. Mero calcolo elettorale, ma molto ben riuscito.

E, ormai, si vedono gli effetti. Ultimo, ieri, festa della Repubblica. Ho visto la consueta sfilata in TV. So per certo che molti italiani di pelle nera sono nell’esercito e, specialmente, nei gruppi sportivi. So per certo che tantissime classi scolastiche elementari e medie sono piene di bambini di colore. Ebbene, ieri – posso sbagliare, ma è quello che ho visto – nessun militare di pelle nera ha sfilato, nessun bambino di pelle nera era nelle classi ricevute da Mattarella sul palco durante la sfilata. Un segno dei tempi. Forse, ma un segno molto brutto.

Non so se mi avete seguito. Ho cercato di dimostrare come un gesto bellissimo e rivolto alla solidarietà verso chi, nel mondo, è stato meno fortunato, possa trasformarsi, per impreparazione nel gestirlo e per criminali calcoli politici, in un terremoto del panorama istituzionale italiano, ormai composto solo di litigiosità, di continua ricerca del “nemico”, di confusione e di inadeguatezza al ruolo rivestito.

Vediamo che accade. Vediamo oggi il Presidente del Consiglio Conte cosa dirà.

Oggi il Governo ha varato un doppio decreto legge su “sicurezza” e “immigrazione”. (nell’articolo è riportato anche il testo).

Nelle intenzioni di Salvini, principale autore del provvedimento esso servirà a scongiurrare nuovi arrivi di “migranti economici” e a dare una “stretta” sui facili riconoscimenti di “asilo” e “protezione sussidiaria”, abolendo quasi del tutto il permesso di soggiorno per “motivi umanitari“.

Viene ridotto lo SPRAR, gioiell  per l’assistenza dei richiedenti protezione e si rende il procedimento di riconoscimento della protezione un percorso ad ostacoli con il dichiarato scopo di ridurre in modo significativo il mumero dei “protetti”.

E qui sorge il grosso problema di questo decreto, al netto delle supposte incostituzionalità.

Già ora, e lo dice pure Salvini, la massa di richiedenti protezione è composta in gran parte da migranti economici, che non ne hanno diritto. Infatti, come si può vedere da dati dello stesso Ministero dell’interno, i dinieghi di proezione delle Commissioni territoriali sfiorano il 60%. Con l’applicazione del Decreto Salvini è ipotizzabile che essi salgano al 75%. E’ in questa percentuale il vero problema. Il 75% dei richiedenti protezione continuerà a vagare per il nostro Paese, probabilmente finendo preda, quando va bene, del lavoro nero e, quando va male della criminalità.

Infatti il vero ostacolo alla normalizzazione del sistema (chi ha diritto viene accolto, chi non ha diritto torna a casa) è l’assoluta assenza della seconda parte della frase precedente. Dall’Italia non esce nessuno. Nessuno viene espulso. Se ne rende conto anche Salvini quando dice “Di questo passo per espellere tutti ci vorranno 80 anni!” . E che le espulsioni siano molto difficili lo dimostra il caso dei tunisini espellendi che tornano liberi perché l’aereo è rotto. O i 74 agenti per scortare 29 migranti. E, si badi bene, i due casi sopracitati si riferiscono a migranti della Tunisia, Paese con il quale c’è l’accordo di riammeissione che funziona meglio, ma non più di 80 alla settimana, sennò il ministro della religione prtesta e fomenta il fondamentalismo.

Il problema dei rimpatri non è solo italiano.

Lo scrissi su questo blog il 7 febbraio scorso e ne riproduco il testo, da cui facimente si può capire perché il Decreto Salvini aumenterà il numero di irregolari e perché i nostri partner europei sono disponibili ad acogliere solo migranti che hanno già avuto la protezione e non una massa indistrinta di profughi/migranti.

“Ieri, 6 febbraio, a Radio anch’io su Radio 1 (qui il podcast della trasmissione) è stata dibattuta la questione “migranti” ed il loro numero, a detta di Berlusconi e di Salvini, tanto spropositato da mettere a rischio la pace sociale.

È intervenuta Emma Bonino che ha detto cose sacrosante, tanto sacrosante da meritarsi i rimbrotti di Antonio Polito, giornalista, che le ha rimproverato di fomentare così i rigurgiti xenofobi e antigovernativi.

Cosa ha detto di tanto trasgressivo Emma Bonino? Ha detto la sacrosanta verità: che le 600.000 espulsioni promesse da Berlusconi e “il via tutti e subito per tutti gli irregolari” promesso da Salvini sono emerite BUFALE, impossibili da realizzarsi.

Occorre qui fare un po’ di chiarezza e, pur senza dare i numeri, ricordare quali sono le norme che regolano la materia.

Innanzitutto il numero degli stranieri regolarmente presenti in Italia, di poco superiore ai cinque milioni, rimane stabile da un triennio. Le cause – secondo Franco Pittau – coordinatore del Dossier statistico sull’immigrazione Caritas/Migrantes, anch’egli presente alla trasmissione –  sono da ricercarsi in una stagnazione degli arrivi per lavoro (i decreti flussi annuali sono per pochissimi posti); il loro numero aumenta solo per i ricongiungimenti familiari e diminuisce per l’ottenimento della cittadinanza italiana (200.000 nel 2017).

A questi si aggiunge il numero degli irregolari e di chi ha avuto respinta la domanda di asilo.

Mi spiego. Per non andare troppo lontano, nel 2016 abbiamo subito lo sbarco di 181.436 “profughi”, nel 2017 di 119.369 (fonte: Ministero dell’interno)

Nel 2016, fra questi profughi, abbiamo avuto 123.600 domande di asilo (fonte: Ministero dell’Interno), nel 2017 un numero di poco inferiore. Orbene, per le norme europee, (le Direttiva 2013/32/UE, attuata con Decreto Leg.vo n. 142 del 2015 e Direttiva 2013/33/UE, attuata con il medesimo  Decreto leg.vo  142) ogni domanda di asilo (più correttamente “protezione internazionale”) va valutata dalle Commissioni territoriali competenti; al loro diniego è consentito ricorso e, fino al termine del ricorso giurisdizionale di primo grado, il richiedente asilo ha diritto all’accoglienza e NON può essere espulso.

I tempi, purtroppo, non sono brevi (sei mesi per l’esame da parte della Commissione territoriale e due anni per l’esame del ricorso giurisdizionale.)

A tale stato posto rimedio con il cd. Decreto legge Minniti (D.L. 17/2/2017 n. 13) che velocizza il sistema dell’esame della domanda di asilo immettendo 250 funzionari intervistatori nelle Commissioni territoriali (il concorso si sta concludendo in questi giorni), istituendo sezioni specializzate dei tribunali che devono esaminare il ricorso e abolendo un grado di giurisdizione per gli appellanti denegati.

Nel contempo sono stati stipulati accordi con i Paesi di origine dei migranti che, nel 2017, hanno visto diminuire di oltre il 25% gli sbarchi.

Questi i dati. Il “guaio” è che non tutti i profughi hanno diritto all’asilo. Anzi, le Commissioni territoriali rigettano oltre il 60% delle domande. Questo 60% costituisce l’esercito dei denegati; tutti propongono appello, in quanto ciò, fino ad ora, gli assicurava almeno altri 18/24 mesi di permanenza “legale” in Italia

Molti, nel frattempo, pur potendo lavorare, commettono reati, specialmente nello spaccio della droga, vera piaga in molte città dove gli spacciatori agiscono alla luce del sole nell’apparente inerzia delle forze dell’ordine.

Il fatto è che una riforma del codice penale del 2014 (svuotacarceri) ha disposto l’impossibilità della custodia cautelare dello spacciatore di modiche quantità di stupefacenti fino all’esito del processo. Quindi il Giudice, quando la polizia gli   porta davanti un “modico spacciatore” sia esso italico o straniero, altro non può fare che fissare la data del processo (al quale l’imputato mai si presenterà) e disporne la scarcerazione.

Il migrante che ha chiesto asilo, che è stato denegato e che ha perso il ricorso presso il tribunale deve lasciare il territorio italiano, volontariamente o tramite espulsione.

E qui cominciano i guai.

Espellere un irregolare è impresa difficilissima, e non solo per la nostra Italia.

I rimpatri sono la parte più difficile e gravosa del fenomeno migratorio. Non sempre la questione è compresa dai media e dalla gente.  I migranti non viaggiano con il passaporto e, come gli imputati in tribunale, cercano con ogni mezzo di sottrarsi alla pena dell’espulsione, celando le proprie vere generalità e paese di provenienza.

Ma anche se io conosco nome e nazionalità di uno straniero da rimpatriare, non posso rimpatriarlo effettivamente se non con il consenso espresso ed il “riconoscimento” dell’autorità consolare del Paese di provenienza. Ed è abbastanza agevole da comprendere che il grado di collaborazione delle autorità consolari di alcuni Paesi asiatici o africani non sia altissimo, anzi, spesso non c’è proprio per il manifesto interesse a conservare le rimesse che il migrante fornisce, anche lavorando in nero.

Poi, nel 2008, ci si è messa anche la citata Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri la quale fissa paletti molto precisi per l’uso coercitivo delle misure per il rimpatrio:

  • La decisione di rimpatrio fissa per la partenza volontaria un periodo congruo di durata compresa tra sette e trenta giorni, per il cittadino non comunitario il cui soggiorno è irregolare. I paesi dell’UE possono prevedere che tale periodo sia concesso unicamente su richiesta del cittadino interessato. In particolari circostanze, il periodo per la partenza volontaria può essere prorogato.
  • Qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria o per mancato adempimento dell’obbligo di rimpatrio da parte del cittadino entro il periodo concesso per la partenza volontaria, i paesi dell’UE devono ordinare il suo allontanamento. Misure coercitive proporzionate, che non eccedono un uso ragionevole della forza, possono essere usate per allontanare un cittadino non comunitario solo in ultima istanza.
  • Solo In casi specifici, e quando misure meno coercitive (cauzione, ritiro del passaporto, obbligo di dimora) risultano insufficienti, i paesi dell’UE possono trattenere il cittadino non comunitario sottoposto a procedure di rimpatrio quando sussiste un rischio di fuga o il cittadino evita od ostacola la preparazione del rimpatrio o dell’allontanamento. Il trattenimento è disposto per iscritto dalle autorità amministrative o giudiziarie e deve essere regolarmente sottoposto a un riesame. Il trattenimento ha durata quanto più breve possibile e non può superare i sei mesi.

 

Con questo quadro normativo si comprende che le espulsioni siano anche molto costose.

Interessante, a questo riguardo, è un articolo di Vladimiro Polchi su Repubblica.it del 18 gennaio 2017 che illustra la complessità e i costi (115.000 euro) di una espulsione di 49 migranti verso la Tunisia. Espulsione, oltretutto, facile perché con la Tunisia è in vigore un trattato che regola e semplifica le riammissioni.

Senza contare, poi, che le autorità dei Paesi di rimpatrio, quasi tutti a maggioranza musulmana, chiedono espressamente di limitare i rimpatri di più persone contemporaneamente in quanto ciò solleva le ire degli imam più integralisti che indicano ai loro fedeli queste espulsioni contemporanee come un oltraggio all’Islam con gravi conseguenze in termini di odio verso l’occidente.

Altro fattore da considerare sono gli interessi economici italiani con i Paesi di provenienza. Nessuno lo dimostrerà mai, ma chissà se un massiccio e ravvicinato numero di espulsioni verso la Nigeria influirebbe sulle ricche concessioni petrolifere italiane in quel Paese?

Comunque la difficoltà dei rimpatri non è un problema solo italiano. Ne è un lampante esempio la vicenda di Anis Amri, il terrorista tunisino responsabile del massacro di Berlino del 19 dicembre 2106. Anis Amri passò diversi anni in un carcere italiano perché, arrivato su un barcone nel 2011, durante una rivolta incendiò il centro che lo ospitava. Scontata la pena, nel maggio 2015, l’Italia cercò di espellerlo, ma la Tunisia, certamente non entusiasta di riprendersi una persona che, prima dei reati in Italia, aveva commesso reati nel proprio Paese, ritardò – forse scientemente – la consegna dei documenti necessari per il “riconoscimento” diplomatico e per l’espulsione. La conseguenza fu che ad Amri fu consegnata una espulsione cartacea che gli intimava di lasciare subito il nostro Paese. Amri si autoespelle, ma verso la Germania. Le autorità italiane segnalano a quelle tedesche la pericolosità di Amri. Comincia un balletto fra la Polizia del Land Nord Reno Vestfalia sulla competenza, ma nessun provvedimento viene preso: Amri presenta una domanda di protezione che viene respinta, ma anche la Germania, per gli stessi motivi dell’Italia, non riesce ad espellerlo, con le tragiche conseguenze che conosciamo.

Ciò dimostra che in tutti gli Stati europei esiste il problema del crescente numero di chi, non avendo diritto alla protezione, purtuttavia non è possibile allontanare. Il tasso medio di rimpatri in Europa si aggira sulla sconfortante cifra del 40%.

Questo, in sintesi ha detto a “Radio anch’io” Emma Bonino. Le espulsioni sono poche non perché non si vogliono fare, ma perché son difficili da mettere in pratica.

Probabilmente per questo la Merkel fece il beau geste  di prendersi un milione di profughi, quasi tutti siriani, quindi tutti eligibili per l’asilo con conseguente nessun rimpatrio.

Probabilmente per questo gli altri Paesi UE difendono cn le unghie il principio cardine del Regolamento di Dublino che impone al primo Stato di approdo di tenersi il richiedente asilo; principio contro il quale combatte disperatamente l’Italia e la Grecia, ma in UE si va a maggioranza, e siamo 27 contro 2.

 

Se la Destra di Berlusconi e Salvini sa fare di meglio, si accomodi. Certo, durante il periodo di governo della Destra, il numero di clandestini calò in modo impressionante, ma non certo per le espulsioni.

Con la Bossi-Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189) furono sanati circa 200.000 irregolari. Nel 2009 la sanatoria varata sotto il Governo Berlusconi IV portò alla regolarizzazione circa 700.000 stranieri…”

Se non si crea un canale regolare di immigrazione per far sfogare in maniera legittima la fortissima pressione proveniente dal sud del mondo, è inevitabile un’ascesa dei numeri dei clandestini che – per sopravvivere – lavorerranno in nero o saranno facile preda della criminalità.

 

Nei giorni scorsi i mezzi di informazione hanno dato la notizia che la Commissione dell’Unione europea avrebbe proposto agli Stati membri nuove soluzioni in materia di redistribuzione dei migranti/richiedenti asilo per soddisfare le richieste dell’Italia rendendole accoglibili per quei membri molto più riottosi come il Gruppo di Visegrad.

La proposta si è concretizzata in due non-paper (=documenti informali): uno sugli “accordi circa le piattaforme regionali di sbarco” (qui il testo) e uno sui “centri controllati” in Europa (qui il testo).

I due documenti sono corredati da schede esplicative (qui, in italiano, per le piattaforme di sbarco) e (qui, sempre in italiano, per i centri controllati). Il comunicato stampa (qui in italiano) conclude il materiale presentato dalla Commissione.

Io ho trovato i non paper piuttosto fumosi, inconcludenti ed… impossibili da realizzare, stante il principio di volontarietà per ogni prestazione sancito dalle conclusioni del Consiglio europeo del 28 giugno scorso (qui il testo) che, molto probabilmente, renderà inattuabili le proposte.

Il primo documento sugli accordi sulle piattaforme di sbarco parte “da una proposta comune UNHCR e OIM, secondo la quale, obiettivo delle intese regionali sugli sbarchi è fare in modo che le persone soccorse possano essere sbarcate rapidamente e in condizioni di sicurezza, su entrambe le sponde del Mediterraneo, nel rispetto del diritto internazionale, compreso il principio di non respingimento (non-refoulement), e che la fase successiva allo sbarco sia gestita responsabilmente. L’operatività delle piattaforme di sbarco regionali va vista come attività parallela e complementare allo sviluppo dei centri controllati nell’UE: insieme, i due concetti dovrebbero concorrere a concretare una condivisione autentica della responsabilità regionale nella risposta alle sfide complesse poste dalla migrazione”.

Già gli Stati africani hanno da tempo fatto sapere di non essere disposti a gestire centri di raccolta nei loro territori (vedi qui) e la volontarietà dell’istituzione di tali centri di sbarco in Europa ne rende quanto mai problematica la loro realizzazione.

Lo scopo del secondo documento (centri controllati nell’UE) è migliorare il processo di distinzione tra le persone che necessitano di protezione internazionale e i migranti irregolari che non hanno diritto di rimanere nell’Unione, accelerando nel contempo i rimpatri. I centri sarebbero gestiti dallo Stato membro ospitante con il pieno sostegno dell’UE e delle agenzie dell’UE.

Per sperimentare questo concetto, potrebbe essere avviata appena possibile una fase pilota con l’applicazione di un approccio flessibile (= volontarietà dell’istituzione di tali centri controllati). Per assistere gli Stati membri che concedono l’accesso ai loro porti per gli sbarchi, la Commissione può mettere a loro disposizione una squadra di sbarco, pronta ad assisterli in caso di approdo di imbarcazioni che contengono in media 500 persone. Il bilancio dell’UE coprirebbe tutti i costi delle infrastrutture e i costi operativi con l’invio di agenti e funzionari delle agenzie europee. Per ogni migrante, lo Stato membro che li accoglie riceverebbe un contributo di 6.000 euro.

Anche tale proposta, stante la non obbligatorietà, ha ricevuto uno scarsissimo consenso.

Ma, oltre a quello che si può ricavare dalle schede esplicative ci sono passi, nei due documenti, che lasciano alquanto perplessi. Come succede da un po’ di tempo a questa parte, nei documenti UE si ripete, come un mantra, che con l’aiuto di UNHCR e OIM, si arriverà ad una rapida distinzione fra chi ha diritto alla protezione e chi non ha diritto.  Nel secondo documento, poi, la Commissione si spinge ad auspicare che, con i “centri controllati” che sostituirebbero gli HotSpot, si arriverebbe ad una definizione della richiesta di protezione in quattro/otto settimane.

A parte la nebulosità e la assenza di precisazioni sulla natura di tali centri, così come fu nel 2015 per gli HotSpot, la Commissione insiste, in documenti non legislativi a proporre norme che contrastano con quelle contenute in strumenti legislativi di rango superiore.

A meno di modifiche l’impianto normativo che regola l’attribuzione della protezione internazionale è la Direttiva 2013/32/UE che detta tutta una serie di norme per la tale attribuzione, con la presenza dell’autorità accertante (non di UNHCR o di OIM) dello Stato membro competente, di garanzie per il colloquio personale, di diritto a permanere nello Stato durante la fase del ricorso di primo grado. Tale Direttiva reca poi una tempistica di durata massima del procedimento che di norma non deve superare i sei mesi con possibilità di superarli nei casi più complessi. Tempi più stretti sono previsti per le procedure di frontiera (= richiedenti ristretti nei luoghi di sbarco) ma solo per affermare che, se la procedura non viene terminata in quattro settimane, il richiedente è ammesso nel territorio nazionale per seguire la procedura normale.

Se il vento di Tampere è definitivamente cessato e il favore con il quale l’UE vedeva i richiedenti protezione si è trasformato in disfavore, lo si dica chiaramente e si mutino le norme primarie. Così non è, e già lo scorso anno la Commissione sfornò una Raccomandazione (norma di rango inferiore) sui rimpatri, molto meno garantista,  che fa a pugni con la sempre vigente DIRETTIVA 2008/115/CE  che sui rimpatri è molto più garantista (vedi qui) lasciando nella profonda incertezza gli operatori.

Insomma, in questo momento l’azione della Commissione europea (che scade fra un anno) appare improntata alla massima confusione, un “facite ammuina” perché nulla cambi.

Ma, d’altronde, è comprensibile. Coma già più volte detto, il vero problema non sono i rifugiati, minima parte dei migranti, bensì la ormai gran parte di questi che si vedono negati il riconoscimento della protezione e che, non solo in Italia, sono molto, molto difficili da espellere (vedi qui). Ben si comprende, quindi, l’apertura dei paesi UE a prendere qualche persona già riconosciuta come rifugiato, ma la netta chiusura a prendersi la massa indistinta di migranti economici e presunti rifugiati che le navi della missione Sophia (vedi qui), delle ONG e delle navi private sbarcano nei nostri porti.

Egoismo e sovranismo prendono il posto della solidarietà.

Sento, leggo, ascolto spesso della GRANDE IDEA di impiantare Hot Spot, sotto l’egida dell’UNHCR, nei Paesi di origine dei migranti. Lo scopo dichiarato è quello di far arrivane in Italia o nell’Unione europea solo chi ha diritto alla protezione internazionale.

L’idea, bella in sè NON è attuabile e vi spiego perché.

Hot spot nei pasi di origine? Ossia nei Paesi “cattivi” che perseguono le persone, che le torturano perché hanno idee contrarie al regime? Nessuno degli degli Stati cd. canaglia accetterà questi hot spot perché non si darà la zappa sui piedi. Acconsentire l’apertura di uno hot spot sul proprio pterritorio equivale ad autodichiararsi “cattivo” e nessuno Stato lo farà.

Apertura di uno hot spot in uno Stato di transito? Nessuno Stato “di transito” lo accetterà. Perché avere uno hot spot che potrebbe consentire a chi ci va di avere un biglietto per l’Europa costituirebbe un formidabile polo di attrazione per milioni di persone. Perché tentare il viaggio pericoloso in gommone se posso andare più facilmente nel Paese X per prendere un biglietto per l’Europa? Ma, visto che la percentuale del riconoscimento della protezione è sotto il 35%, nei Paesi di transito che accetterebbero l’Hot Spot resterebbero tutte le migliaia e migliaia di stranieri che “hanno tentato la sorte”. E queste migliaia di persone, senza casa, senza soldi, senza nulla, oltre a costituire un peso per i poveri Stati africani, ne costituirebbero un elemento di destabilizzazione. Conclusione: nessuno Stato africano accetterà sul proprio teritorio uno hot spot destinato allo screening di aspiranti richiedenti asilo provenienti da altri Paesi.

Ho ancora sotto gli occhi le immense file di aspiranti migranti sotto le nostre ambasciate a Tirana e a Rabat durante le crisi di inizio millennio.

Ancora una notazione: su quali basi giuridiche si fonderà lo screening? Le direttive e i Regolamenti dell’Unione europea (unici strumenti normativi adottabili per gli Stati membri) prescrivono formalmente che tutta la normativa europa si riferisce solo alle domande di protezione internazionale presentate entro i confini dell’Unione europea, escludendo anche le Sedi diplomatiche. (vedi articolo 3 della direttiva 2013/32/UE e l’articolo 2 della proposta di Regolamento della Commissione COM(2016) 467 final, (attualmente al COREPER).

Certo , la normativa UE potrebbe essere modificata, ma ci sarà la volontà? Ci sarà il tempo?

Ultimo, ma non ultimo per importanza, è la pratica inutilità di questi hot spot in Africa per fermare gli sbarchi.

I Migranti non sono stupidi. Sanno perfettamente che le attuali regole UE, almeno per l’Italia, consentono il iconoscimento dell aprotezione internazione solo ad una ristretta percentuale di migranti.

Perché allora giocarsi le carte in uno scrreening sul territorio africano dove, se va male, lì si resta senza nulla in mano e con un broblematico ritorno nel Paese di origine.

Presumo che la maggior parte continuerà a giocarsi le sue carte, dopo la traversata, sul suolo italiano (o di unPaese UE). Se va male, si potrà sempre contare sulla cronica inefficienza ad effettuare le espulsioni ed i rimpatri. Fra il 2013 e 2017, a fronte di 145.155 ordini di rimpatrio, solo 28.800 sono stati eseguiti, aumentando a dismisura lo stock della clandestinità.

Ultimo, ma non per importanza: se un richiedente asilo non passa per gli hot spot in Africa e arriva sulle coste europee chiedendo asilo, la sua domanda non potrà essere solo per questo rifiutata, bensì andrà valutata.

Meglio, quindi, essere clandestini in Italia he spiantati in Africa. E gli sbarchi continueranno.

In questi giorni si assiste al solito balletto di dichiarazioni sulle cifre dei migranti. “Solo il 5% ottengono lo status di rifugiato!” – “Le Commissioni territoriali negano l’asilo al 60% dei richiedenti!“.

Facciamo un po’ di chiarezza.

Innanzitutto le definizioni. Per l’Unione europea – che detta legge sull’argomento – esistono due tipi di protezione, il riconoscimento dello Status di rifugiato  (ex Convenzione di Ginevra del 1951) e il riconoscimento della protezione sussidiaria (ex Direttiva 2011/95/UE). Lo status che ne consgue è praticamente equivalente. Diversa è l’origine. La Convenzione di Ginevra parla di persecuzioni ricevute per ragioni di razza, religione, etc. La Direttiva sulla protezione sussidiaria parla di pericolo grave di morte o persecuzioni derivante principalmente da uno stato di guerra generalizzato nel paese di provenienza. Insiema vanno sotto il nome di “protezione internazionale”

Infine, protezione è concessa allo straniero che non ha diritto alle protezioni descritte in precedenza, ma che, per altre ragioni necessita di un permesso di soggiorno  per “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (articolo 5, comma 6 del Testo Unico sull’immigrazione. Decreto Legislatico 286/98).

Definite le situazioni, i dati possono essere reperiti sul sito del Ministero dell’Interno. Se si clicca qui, si arriva alla pagina dove sono rappresentati i dati relativi al fenomeno degli sbarchi e l’accoglienza dei migranti presso le strutture gestite dalla Direzione Centrale dei servizi civili per l’immigrazione e l’asilo. E qui si può apprendere quali siano i numeri, le nazionalità dei migranti sbarcati e le violazioni della solidarietà degli Stati membri UE sull’impegno ad accogliere migranti sbarcati in Italia e Grecia.

E, ancora più importante è fare chiarezza sull’ondivaghezza dell’Unione europea (clicca qui)

Indispensabile, poi, è fare chiarezza sugli esiti dell’esame presso le Commissioni Territoriali deputate a decidere se il singolo migrante ha diritto o meno alla protezione.

I dati sono, come sempre sul sito del Ministero dell’interno (clicca qui).

In estrema sintesi, per l’anno 2016 e 2017, hanno richiesto protezione, rispettivamente 123.600 e 130.000 stranieri

richiedenti protezione 2016 e 2017

 

Per quel che riguarda le decisioni delle Commissioni territoriali, mel 2017, è stato riconosciuto lo status di rifugiato all’8% dei richiedenti, lo status di protezione sussidiaria all’8% dei richiedenti, la protezione umanitaria al 25% dei richiedenti

esiti richieste 2016 e 2017

 

Quindi, in conclusione, al 41% degli stranieri che hanno richiesto protezione, tale protezione è stata accordata.

Discorso a parte meritano i minori che, per il nostro ordinamento, che siano richiedenti protezione o meno, sono inespellibili.

Per le norme europee al riciedente protezione che si è visto negare tale protezione dalle Commissioni territoriali è concesso appello (rectius giudizio di primo grado presso un giudice togato) durante il quale è inespellibile e continua a fruire dell’accoglienza. E’ questo il grande problema che differenzia l’Italia dalle altre nazioni europee. Da noi arrivano, con i gommoni e con i barconi, persona provenienti da Paesi che, in genere, non sono focolai di guerra nè d discriminazioni, bensì solo di povertà. I respingimenti in mare sono giustamente vietati e noi, a differenza dei Paesi dell’Europa continentale, non possiamo far euno screening alle frontiere.

Spero di aver fatto un po’ di chiarezza.

sergioferraiolo

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