Archivi per il mese di: dicembre, 2019

Di solito si viaggia per vedere posti nuovi. Spesso i viaggi sono lunghi. Si passa attraverso tappe nuove e ignote. Magari quasi due giorni di viaggio.
Eppure c’è un filo rosso che congiunge casa tua con la meta. Almeno nella parte di mondo a noi più nota il processo di standardizzazione dei luoghi di transito è ormai realtà.
A cominciare dai nomi delle stazioni delle metropolitane che, in tutta europa son scritte con lo stesso font.
Ho preso il treno alla stazione ferroviaria di Riga senza esitazione. Gesti e procedure sono le stesse.
Negli aeroporti che sono luoghi vieppiù complicati: oltre i biglietti, check in, bagaglio a mano, bagaglio di stiva, articoli che devono per forza andare nell’uno o nell’altra, controlli di sicurezza, gate, livelli….. eppure lo aeroporto di HongKong, quanto alle procedure non è molto diverso da quello di Fiumicino. Anche a dispetto dell’inglese usato come lingua veicolare fra me e gli addetti cinesi che, entrambi, lo conosciamo poco.
Le stazioni della Metro come gli aeroporti sono luoghi protetti e sicuri. I guai iniziano, e la scoperta del nuovo, comincia, quando si esce.

I guai comincers

Il tempo, abbiamo tempo, abbiamo perso tempo, non abbiamo più tempo. Il tempo passa, il tempo corre. Le lancette vanno in un senso solo, lentamente, troppo lentamente quando si aspetta qualcosa di bello che deve arrivare, troppo velocemente quando siamo attesi ad un appuntamento spiacevole.
Eppure, per me, c’è una condizione di tempo fermo, immoto, che scorre pur stando fermo.
Il tempo ha bisogno di riferimenti, di un prima di un dopo. il “che ora è” funge da spartiacque fra il prima e il dopo. Ma, certe volte, pare non ci sia un prima o un dopo e neppure un “che ora è”.
Mi trovo in una di quelle situazioni. Certo ci vuole un bello straniamento dalla realtà. Elementi? Lungo viaggio aereo verso est. Il giorno si comprime. Era meriggio, è subito notte. Le luci si spengono. Silenzio. La temperatura cala. Tutti avvolti nelle coperte. Si dorme, un piccolo pisolino. Ma quanto tempo ho dormito? La convenzione delle lancette di un orologio mi dice 30 minuti. È un tempo solo mio, però. Ma che ora è? Non lo so. E non posso saperlo. Siamo in volo da poco più di quattro ore, partiti a mezzogiorno, ma fuori è notte fonda. Per il mio primo orologio sono le 16.30. Per il mio secondo orologio sono, come ad HongKong, dove scenderemo, le 23.29, quasi mezzanotte. Arriveremo alle 06.20, ora locale, 11 ore più 7 ore di fuso. Poi quasi otto ore a Hong Kong, si riparte per la destinazione finale, Yangon, ma in senso inverso, il tempo si distende. Ripartiamo alle 14.25, ora di Hong Kong , arriviamo alle 16.20, ora birmana. Due ore? No, 3 ore e 25 minuti. “Guadagnamo” due ore di fuso tornando indietro. Non ho fatto il calcolo del tempo totale. Servirebbe? Ho quattro punti temporali di riferimento: l’ora italiana, l’ora di Hong Kong, l’ora birmana, il mio tempo, il mio ritmo cicardiano. A quale dare retta? L’organismo si ribella, non combatte per avere il necessario riferimento. Il tempo si ferma. Il dondolio dell’aereo concilia lo stato di torpore in cui io e, mi pare, altri 300 passeggeri sono sprofondati.
Cerco di bere molta acqua, così mi hanno consigliato, ma lo consigliano anche quando si ha il raffreddore. Guardo un film, sonnecchio, leggo un libro di Cottarelli sugli errori della economia italiana, passo il tempo. Già, ma quale e quanto tempo? Sarà giorno e tempo di scendere nell’antica colonia cinese, ma il mio tempo dirà che da poco è passata la mezzanotte. Ma non è più il mio tempo. Il tempo ha compresso una lunga notte invernale in poche ore. Mi devo rendere conto che quando io mio tempo comincerà a reclamare il giusto sonno notturno, sarà, invece, tempo della prima colazione. E non sarà finita. Poi il tempo starà fermo per un po’ e poi si allungherà.
Intanto il resto del mondo vive la sua vita con i sui punti di riferimento, ignaro di quelle 300 persone che, momentaneamente, ne sono stati privati.

Oggi tutti corrono. Tutto e subito. Tutto calcolato al millesimo. Coincidenze ferroviarie, aeree stradali, studiate a tavolino come piani di guerra. Massimizzare la vacanza, dicono. Se vuoi fare una vacanza in Mozambico devi eliminare tutti i tempi morti: trova il volo più diretto e veloce, le coincidenze più coincidenti.
È vero si ha sempre meno tempo e il tempo non va sprecato, dicono. Ma perché, il tempo fra la partenza e l’arrivo non è esso stesso viaggio o vacanza.
Sono in una condizione fortunata. Da poco sono in pensione e il fattore tempo non è più così stringente.
Oggi ho goduto di cose, di piccole cose, non strettamente attinenti al viaggio, che mi hanno piacevolmente riempito la giornata.
L’aperitivo al nuovo piano bar di Termini, leggendo una novella di Camilleri sui Capponi a Natale.
Il treno semideserto che mi portava nella capitale morale mi ha regalato il tempo per fare ancora gli auguri agli amici via telefono e una simpatica conversazione con una coppia dai rapporti complicati: lui milanese, lei romana, lui lavora a NewYork, lei fra Londra e Madrid. Hanno fatto un monumento a Skype e indotto a riflettere sulla nuova meglio gioventù.
Ho scoperto, poi, i binari 1 e 2 della Stazione Centrale. Non so se costruiti apposta così o ricordo del tempo che fu.
Mi sono concesso una stanza nell’hotel dentro l’aeroporto. Fra essa e il banco del check in meno di dieci minuti. La prima volta, comunque, che gironzolò per un grande aeroporto senza l’ansia di fare presto (quella verrà domani), scegliere di fare uno spuntino in uno dei tanti punti di ristoro dell’aerostazione, tornare indietro, prendere un’ascensore e ritrovarmi nel corridoio della mia stanza.
Un po’ di TG nel megaschermo, un film e queste parole.
Domani. Domani inizierà con una ottima (spero) colazione senza fretta, dieci minuti di cammino e consegnerò il borsone al check in, conoscerò i miei compagni di viaggio e un lungo, lunghissimo volo mi porterà a Hong Kong. Kindle, cuffiette, lettura della guida, chiacchiere riempiranno il tempo.
Prima di riprendere l’aereo che, giocando fra i fusi orari, ci riporterà indietro a Yangon, avremo sei ore di stop. Stessa situazione di sedici anni fa. Allora impiegammo queste sei ore per una vacanza supplementare e imprevista: un giro ad Hong Kong. Ma stavolta ho paura che rimarremo in aeroporto: non vorrei che una improvvisa manifestazione degli studenti ci facesse perdere l’aereo.
Bah, penso che mi metterò a dormire.

Continua…..

Dopo il post di ieri ho ricevuto alcune critiche sul ruolo di Aung_San_Suu_Kyi, come se la “signora si disinteressasse completamente del problema dei Rohingya  accusandola quasi di genocidio  reclamando la revoca del premio Nobel.

Io no so cosa effettivamente pensi la “Signora”, cosa abbia fatto e cosa abbia detto la settimana scorsa alla Corte internazionale dell’Aja dove doveva difendere il suo Paese, accusato dal Ghana di atti contrari ai diritti umani nei confronti dei Rohingya.

Quello che posso dire è che la “Signora” sta seguendo un percorso molto stretto attraverso il sentiero lasciatole libero dall’esercito che, prima delle elezioni del 2015, dominava la scena politica col pugno duro, permettendosi anche di non riconoscere la sconfitta elettorale del 1990.

L’esercito, in Myanmar non è come lo intendiamo noi. È una casta dominante. Possiede fabbriche, banche, società finanziarie all’estero, scuole private alle quali possono accedere solo i figli dei militari.

Con la nuova Costituzione, l’esercito ha ottenuto che Aung San Suu Kyi non possa, ad personam, mai rivestire il ruolo di Presidente della Repubblica o di primo ministro. Ha ottenuto che comunque vadano le elezioni di aver garantito il 25% dei seggi al Parlamento, di nominare, quindi di gestire, il ministro dell’interno, il ministro della Difesa, il ministro delle frontiere.

A ciò si aggiunge la tradizione birmana, uno stato federale, di favorire sempre e comunque l’etnia birmana che vive al centro del Paese, discriminando le minoranze etniche che vivono degli staterelli ai i confini del Paese. Un po’ come sta facendo Modi in India a favore degli indù e con la contestata nuova legge elettorale che preclude l’acquisto della cittadinanza ai musulmani.

I Rohingya sono una minoranza da sempre vessata, a cominciare dalla loro origine, come succede sempre nei Paesi i cui confini sono stati tracciati con la matita dal colonizzatore occidentale che non sapeva o nn volva riconoscere lo stato tribale della popolazione.

I Rohingya vivono nella parte settentrionale della Birmania, nello stato di Rakhine (noto anche come Arakan o Rohang in lingua Rohingya) al confine con il Bangladesh. La loro origine è molto discussa: alcuni li ritengono indigeni dello stato di Rakhine, mentre altri sostengono che siano immigrati musulmani che, in origine, vivevano in Bangladesh e che, in seguito, si sarebbero spostati in Birmania durante il periodo del dominio britannico.

La loro religione ha da sempre costituito un ostacolo alla integrazione in una popolazione in larga parte buddista o animista.  Per questo i Rohingya non possono avere la cittadinanza birmana.

La cosa si è vieppiù aggravata quando – si dice – che i maggiorenti Rohingya abbiano chiesto l’applicazione della sharya islamica nello Stato dove vivono, il Rakine. Un ulteriore elemento di frizione con il Governo militare che riceva parte della sua grande autorità dalla difesa della prevalente religione buddista.

Date queste premesse Aung San Suu Kyi non ha alcuna possibilità d’intervenire in questioni sulle quali, con la sua carica “inventata” di Consigliere di Stato, non ha alcuna competenza.

Certo potrebbe dire qualcosa a titolo personale sulle persecuzioni verso i Rohigya. Ma deve scegliere. Una dichiarazione in tal senso provocherebbe danni molto ingenti alla sua opera di democratizzazione della parte centrale della Birmania, senza contare che sarebbe presa con molta contrarietà sia dall’esercito, sia dalla popolazione birmana che, per le diversità appena evidenziata, non vede certo i Rohigya con simpatia.

Personalmente non so quale sia il sentimento che alberga nel cuore della “Signora” con i fiori fra i capelli, ma ritengo che abbia compiuto una scelta dolorosa, ma utile al suo progetto. Dei Rohingya non se ne parla, vittime come i Curdi di diverse valutazioni politiche e condannati alla loro penosa condizione, vittime sacrificali e “collaterali” di disegni che privilegiano masse più numerose di popolazione.

Continua, nei prossimi giorni……

Rohingya

Leggo e ascolto quello che sta succedendo in Libia. Guerra, come al solito. Al Serraj contro Haftar, come al solito, milizie contro milizie, tribù contro tribù.

Non c’è niente di sicuro tranne il competo fallimento dell’occidente di esportare la Democrazia (sì quella sul modello ateniese) sulla punta delle baionette.

Noi occidentali siamo fermamente convinti (nonostante le attuali prove contrarie in Turchia, Russia, Polonia, Ungheria,) che il nostro modello di Stato unitario governato democraticamente(!) da un Parlamento con la divisione di poteri eccetera eccetera, sia il miglior modo di condurre i popoli verso il futuro.

Ebbene abbiamo gli occhi foderati di prosciutto. Il nostro modello ci viene dall’antica Grecia di cui noi tutti occidentali siamo figli. Ma non è detto che sia l’unico e il migliore. Tante popolazioni sono abituate ad autogovernarsi con sistemi diversi: consiglio tribale, consiglio dei saggi e a risolvere le questioni fra differenti gruppi con la guerra. Noi abbiamo ripudiato la guerra circa 71 anni fa, ma, fino ad allora, il ministro della Difesa si chiamava Ministro della Guerra. E la guerra era uno strumento accettato e accettabile per risolvere i conflitti fra i diversi gruppi, tribù, etnie.

L’occidente ha campato a lungo sull’ordine imposto con la forza da Dittatori come Saddam Hussein e Gheddafi. Una volta rimossi, ecco il caos.

Non sarebbe meglio un ripensamento? Lasciare ai popoli la libertà di scegliere il loro modo di governarsi? Consiglio tribale, Consiglio di tribù, etc?

L’occidente potrebbe imporre il suo peso accettando nei contatti fra Unione europea, organizzazioni internazionali, Stati sovrani solo quelli condivisi da un organo locale deputato ai rapporti esterni. Penso, per fare un esempio, alla deliberazione di un Consiglio dei Saggi, alla deliberazione di una assemblea di capi tribù, alle determinazioni di un rappresentante unico delle diverse etnie?

Sarebbe una sorta di autodeterminazione dei popoli.

Non dobbiamo essere troppo presuntuosi: il nostro modo di governo potrebbe non essere universalmente accettato. Vedi in India, dove il nazionalista Modi ha introdotto una contestatissima legge sulla cittadinanza che favorisce gli indù e discrimina i musulmani. Oppure in Myanmar o Birmania dove la odissea dei Rohinga è sacrificata alla unità del Paese ed al ripristino di un tantino di democrazia.

Dobbiamo convincerci che i percorsi ed i cammini possono essere diversi da quelli che noi riteniamo scontati.

Ovviamente non ho soluzioni, né “consigli”. Sono, come voi, tanto impregnato del concetto di democrazia ateniese che non riesco ad esser lucido considerando altri modelli.

 

Discorso agli ateniesi 461 a.c. Pericle –

Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.

Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versatilità, la fiducia in se stesso,

la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così

 

 

sergioferraiolo

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